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Fisiologia dell’anima - o, se preferisci, - neuroni & anima
Riccardo Fesce - tutti i diritti riservati (editori e agenti interessati, inviare una mail)
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XIII

MAGONE E FELICITA’ − Vivere o sopravvivere

Ma noi si doveva parlare di anima! Saranno tutti delusi, a questo punto: si è parlato di motivazione, e si è finiti su emozioni e affetti, piacere del bello, estetica, etica...

Ma non siamo fuori tema: in fondo, quando si pensa all’anima, a parte chi la vede come una nuvoletta immateriale, staccata dal corpo, dalla vita dal dolore dal piacere dalla memoria dai desideri dai sogni dall’impegno, ci si riferisce a qualcosa che sta “sopra” il corpo, ma vi è strettamente legato, e tira le fila, e soffre e ama e desidera e vuole e si impegna e giudica e decide; e gode di ciò che è bello e di ciò che è giusto. E anela all’infinito.

Non siamo fuori tema, dunque. Ma anche tralasciando gli aspetti teologici, manca ancora qualcosa: l’infinito. Quell’insopprimibile anelito a superare i limiti del corpo, della realtà materiale, della vita, a raggiungere atri mondi più lontani e − forse è proprio questa la parola − più INTENSI.

E allora parliamone. Di intensità. E di Infinito.

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Se mangiare, bere, dormire, guarire ed essere amati danno piacere, la sete la fame il sonno il dolore il desiderio d’amore sono sensazioni contraddittorie, talora decisamente fastidiose talora stimolanti e quasi piacevoli: talora puro disagio, talora inquietudine, desiderio, languore, nostalgia.

E pare davvero che lo stesso valga per l’armonia, il bello il buono il giusto, l’intensità, l’infinito.

Lo stomaco può essere pieno, il corpo riposato, sano, e le persone amate vicine. Eppure talvolta ti prende una nostalgia, un languore che vuole musica, e meraviglia e infinito...

Forse è solo magone, il blues. Ti svegli la mattina e non sai bene cosa sia il problema, ma ti opprime una specie di malinconia. Forse è solo stanchezza, o la primavera in arrivo... Le donne sono delle specialiste in questo: puoi prenderle in giro, coccolarle, provare a capirle o semplicemente lasciarle in pace... Forse non fa grande differenza, il magone non è poi tanto male, è una specie di piacere perverso. Ricordo quando ero ragazzo, e la signora dell’ombrellone accanto si lamentava che i programmi televisivi non erano più quelli di una volta: “non fanno più belle commedie, quelle belle commedie da piangere...”.

Forse non è altro che la vecchia storia della catarsi di Aristotele: il dramma ti guida attraverso emozioni forti che non hanno una sostanza reale, solo simulazione, e tu metti in atto tutte le risposte fisiologiche, viscero-somatiche e cognitive tipiche di queste emozioni, e tutto ciò ti fa star bene, perché quando tutto è finito hai scaricato la tensione, il nervosismo l’incertezza il disagio, attraverso paura angoscia e lacrime, e tutte le cause di questa performance emotiva si sono volatilizzate con l’applauso finale.

Perché in fondo piangere e soffrire − specie quando una ragione reale per piangere e soffrire non c’è − non è così terribile, può essere anche una sottile forma di piacere... Sentire le proprie sensazioni, la contrattura dello stomaco, quella pressione dietro le palpebre, avvertire l’intensità delle proprie emozioni.

Prova a chiedere a un tifoso se ne vale la pena, se vale la pena soffrire così intensamente quando la sua squadra perde... Ma l’intensità della gioia della vittoria, moltiplicata dal condividerla con migliaia di persone, ricompensa di tutto. Pensa all’emozione quando − tutti in piedi − suona l’inno nazionale per celebrare la vittoria di un atleta: che sia ammirazione, orgoglio o identificazione collettiva, che sia semplicemente la condivisione di un’emozione forte, beh, è un istante di felicità, proprio nell’intensità dell’emozione. Magari svanisce subito, ma per un momento è una sensazione che cancella tutto il resto.

Sono solo esperienze momentanee? Può darsi, ma che cos’è allora l’amore, se non una curiosa coincidenza di stati emotivi e razionali capace di aggiungere una tale intensità a ogni esperienza con l’amato − che sia la luna di miele o semplicemente un giro di shopping, una sera con gli amici o il solo pensiero del partner mentre torni a casa la sera?

E allora uno può anche pensare che felicità sia che non ti manchi niente, non avere desideri perché hai tutto quello che ti serve, oppure, secondo il saggio Epicuro, hai imparato a non desiderare... Ma forse la felicità richiede che si trovi qualche risposta anche a quel desiderio di intensità, in qualunque forma la si possa avere e provare profondamente, come una risposta a quella vaga sensazione che sempre, comunque, qualcosa manchi...

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Tutto questo ci riporta a quanto abbiamo detto di vita, e di limiti.

La vita si afferma e si sostiene cambiando: siamo fatti di una parte che cerca di sopravvivere difendendosi e di una che cerca di VIVERE. E per sopravvivere ci si difende, si mettono paletti, barriere, si definisce, si limita. Ma per vivere si deve abbandonare ogni difesa, affrontare il mondo, nudi, senza protezione, senza paura di cambiare.

Una forza che ti sostiene e trattiene, una che ti spinge avanti. Bisogno di quiete e bisogno di guai.

E ci sono due modi anche di essere “felici”: la quiete beata e i momenti intensi.

Lo dice splendidamente Angeles Mastretta nel suo “Male d’amore”, nelle due versioni dell’augurio della zia Milagros alla neonata Emilia; quello tradizionale:

“Bambina che dormi sotto lo sguardo di Dio, ti auguro di non perderlo mai, che nella vita la pazienza sia la tua miglior alleata, che tu possa conoscere il piacere della generosità e la pace di coloro che non aspettano nulla, di comprendere i tuoi dolori e di saper accompagnare quelli altrui. Ti auguro di possedere uno sguardo limpido, una bocca prudente, un naso comprensivo, un udito incapace di ricordare gli intrighi, lacrime precise e moderate. Ti auguro di credere nella vita eterna e di possedere la quiete che tale fede concede”.

E il suo augurio personale:

“Bambina, i miei doni sono la follia, il coraggio, l’ambizione e l’irrequietezza. La fortuna degli amori e il delirio della solitudine. Il gusto per le comete, per l’acqua e per gli uomini. Desidero per te intelligenza e ingegno. Uno sguardo curioso, un naso dotato di memoria, una bocca che sorrida e maledica con precisione divina, gambe che non invecchino, un pianto in grado di restituirti la fierezza. Ti auguro di avere il senso del tempo che hanno le stelle, la tenacia delle formiche, il dubbio dei templi. Spero tu abbia fede negli àuguri, nella voce dei morti, nella bocca degli avventurieri, nella pace degli uomini che dimenticano il proprio destino, nella forza dei tuoi ricordi e nel futuro come promessa che contiene tutto ciò che non ti è ancora accaduto. Amen”

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Al di là di un ingenuo anelito per un'ebete e indefinita "felicità", ognuno di noi ambisce, con maggiore o minor consapevolezza, ad un benessere sufficientemente solido, che però non oserebbe mai chiamare felicità, e contemporaneamente a qualcos’altro − ben più vicino a ciò a cui ognuno pensa come felicità: alla INTENSITA', sensazione e privilegio assoluto dell'essere umano.

Tre quarti della popolazione maschile si emoziona di fronte alla armonia e alla INTENSITA' del gesto atletico. Tutti ci si emoziona di fronte all'INTENSITA' dell'impresa impossibile e dell'atto eroico.

Non tutti, fortunatamente, si emozionano di fronte alla INTENSITA' del potere e della prevaricazione (in genere non avvertendola come tale ma come "potenza"), ma può succedere.

E ci si può emozionare di fronte a combinazioni di parole che riescono a cogliere e imbrigliare per un istante l'intensità e inafferrabilità della vita.

Denaro, fortuna, ciò che il mondo e gli altri ci danno, e la filosofia di godere delle piccole cose, e sapersi accontentare, orientano verso una felicità da quiete beata.

Ma l’inquietudine, l’indipendenza da ciò che ci viene dato, la sfida ad ESSERE, e a FARE, sono i prezzi da pagare per l’intensità. E questa è l’essenza della vita, che deve sapersi proteggere, ma al tempo stesso deve esporsi e negarsi in ogni istante in cerca di equilibri nuovi e più complessi.

Forse la felicità si può davvero definire: è armonia, ma anche trovare la strada, in ogni istante, per armonie sempre più fresche e ricche di scoperte e passione. Armonia inquieta e appassionata.

E’ vero, senza sopravvivere non si può neppure vivere. Ma persino dove ogni energia è indispensabile anche solo per sopravvivere − di fronte alla fame, alla guerra − incontri pensieri disinteressati e gesti d’amore, segni di VITA, di resistenza, di intensità.

E quando qui da noi vedi incapacità di vivere, ti rendi conto che per costruire la felicità − fatta non solo di quiete e benessere ma anche di intensità e passione − occorre non dimenticare, o reinventare, per l'uomo, nell'educazione scolastica, nella comunicazione, nell'organizzazione del lavoro, e in ogni altro ambito, la capacità di attribuire valore alle cose che ne hanno, e soprattutto di gioire di ciò che SI E' e SI FA, piuttosto che di ciò che si possiede e si ottiene.

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Nel guscio, o capaci di passione

Girando per il lindo e ordinato New England, linde casine bianche con lindi praticelli verdi e steccatini bianchi e linde bandiere a stelle e strisce alzate ogni mattina, e chiesette finte, e uffici postali con le colonne bianche, e case dei pompieri con le autopompe che sembrano finte, cromate dorate rossate con dotazione di campanaccio e scala − e pochi neri, invisibili, se non in disparte fuori dalle porte di servizio dei locali pubblici − e sorrisi soddisfatti della gente, che pare dire “qui noi il mondo ce lo siamo messi in ordine gli altri si fottano”...

Girando per il lindo e ordinato New England mi veniva da pensare quanto bisogno hanno quelli di noi che ancora hanno tratti umani, per tenerli vivi, di qualcosa fuori di noi, più grande, più forte, che ci ispiri, ci muova, ci travolga, ci annichili permettendoci di realizzarci.

La passione, bisogno di grande, di infinito, intensità.

E un bisogno di passione, in chi non riesce a metterlo a tacere nel nome di una integrazione in una società di ragionieri e commercialisti del benessere, di venditori e prestidigitatori del piacere.

Passione ideale politica sociale amorosa, come un mare in tempesta cui non si può che sottomettersi, ma impegnandosi, lottando con ardore e convinzione. Una forza che dia senso al dolore alla sofferenza alla fatica, non solo alla nostra ma a quella che ci sta intorno, quella degli altri, la guerra la fame l’oppressione.

Certo, potremmo evitare e dimenticare tutto ciò isolandoci in un paradiso di benessere. Ma proprio nel non farlo sta il minimo di umanità che ci è rimasto attaccato all’anima.

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Forze che diano senso alla vita. Vengono in mente l’amore immenso e inenarrabile, l’impegno sociale, la lotta politica, la ricerca della verità (esiste?), forze trascendenti e potenti come il mare in tempesta e la furia degli elementi.

Nella vita di molti di noi vi sono periodi che sono rimasti profondamente incisi nella memoria: guerra, per alcuni, o grandi imprese, lotte per un obiettivo importante o ideale, impegno comune (sì, molto spesso c’entra proprio la dimensione collettiva, e la condivisione che moltiplica la passione). Sono epoche della vita in cui gli eventi, per un motivo oper l’altr, pare siano stati vissuti con intensità amplificata, esagerata, e gli eventi, le persone, le impressioni di quelle epoche sembrano legati più strettamente alla nostra vita, più importanti per il suo equilibrio e la sua storia. Capita per le mani una nota, una fotografia, un ricordo altrui, che si riferisce a uno di quei periodi o episodi, e spesso è difficile accettare che venga davvero da laggiù, pare che gli manchi la intensità adeguata.

Il punto cruciale a proposito di queste epoche e vicende intense è che non necessariamente devono essere esperienze positive: splendide o terribili, sanno ugualmente produrre nostalgia e tenerezza, ricordando.

In Italia, negli anni sessanta e settanta un gran numero di ragazzi coinvolti nel sogno politico di costruire una società nuova, diversa, perfetta, avevano maturato la loro visione della vita nell’ambito cattolico. Immagino che questo avvenga ancora, anche se forse riguarda una percentuale minore della gioventù attuale. Si incontra l’impegno sociale come CARITA', intesa come negare se stessi in nome della fede e dell’amordidio. Poi uno scopre il PIACERE di impegnarsi, lavorar sodo, faticare e soffrire insieme, e comunque socialmente, e vedere il risultato del proprio impegno negli occhi degli altri. E allora scopre che non fa differenza se un dio ha detto che cosa si deve fare; scopre che non c’è negarsi qui, qui ci si ritrova, non ci si nega; soprattutto scopre che la condivisione − di idee, impegno, risultati − moltiplica l’intensità, e l’intensità cambia la percezione stessa della vita, la sua luce, il colore, la musica.

La potenza incredibile dell’intensità è evidente a ognuno di noi pensando alle storie d’amore: l’intensità che l’amore regala con tanta generosità ad ogni esperienza, sensazione, pensiero e sogno, al punto di cambiare la percezione della vita, della realtà, di se stessi. Oggi un giornalista ha posto a un “esperto” di amore la interessante domanda: “ma alla fine, la gente, dall’amore, ricava più piacere o dolore?”; l’altro ha risposto ciò che ognuno sarebbe stato capace di dire, piacere se sei fortunato, dolore se non lo sei. Ma non diciamo stupidaggini! non c’è bisogno di esperti: chiedi a chiunque abbia amato − qualunque sia il suo livello culturale − e te lo dirà: il problema non è piacere o dolore, il piacere può essere tanto grande da far male, il dolore così dolce da incantare, il problema è l’intensità. Nessuno rinuncerebbe all’esperienza di questa intensità; che sia il piacere di stare insieme, parlare, trovarsi, far sesso, godersi la gioia, i sorrisi, i successi del partner; che sia invece il dolore di separarsi, il desiderio, il languore, i sogni, il partner che ti manca, la sofferenza per i suoi guai, le sue angosce. Nessuno oserebbe affermare che tutto questo è piacere, ma è quanto più vicino alla felicità si può arrivare.

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Ma che siano passioni vere, non miti fasulli ammantati di potenza.

Fuga, droga... Esperienza quest’ultima comunque travolgente, annichilante, capace di ridisegnare (cancellare?) valori affetti passioni sogni e comportamenti, di imporsi e imporre scelte comportamenti e destini. Ogni altro bisogno e desiderio, problema e cruccio, ridicolizzato di fronte all’esigenza ASSOLUTA, la droga. E questa sottomissione totale a qualcosa di più forte di te spesso ammantata di un fascino eroico: lo trovi urlato disperatamente dai più lucidi tossicomani (si legga Trainspotting per averne un’idea) e avvertito subdolamente, ma chiaramente, innegabilmente, dai giovani incuriositi, e affascinati, come da grandi pericolose imprese, o dagli sport estremi... L’emozione totale che ti prende per le budella e non esiste più null’altro.

Credo che l’equivoco sia grave. I desideri hanno un oggetto, a regola possibile o verosimile, e si traducono in progetti, per realizzarli. Quelli impossibili si trasformano in sogni, che ogni tanto si possono coccolare ma non guidano la vita, oppure in passioni. E la passione è desiderio, o bisogno, o decisione inflessibile, di perseguire ciò che non si può avere, o quantomeno che non dipende da noi avere, che non è in nostro potere, perché è più grande di noi, e la grandezza, il valore superiore, la universalità, la forza inarrivabile è ciò che trasforma la passione in un anelito a trascendere se stessi, a esprimersi e realizzarsi negando i propri limiti per volare liberi [ehi, che furbo, ho inventato la sublimazione... ma forse ci aveva già pensato qualcun altro...].

Qui si scopre il trucco! La droga non è forte, la droga non è grande, la droga la compri. Dove sta l’eroismo, il mito, nel perdersi dietro qualcosa che fa sì dimenticare tutto il resto, ma non si fa inseguire invano, no, si fa comprare? Per quanto travolgente sia il bisogno, che c’è di eroico nel riconoscersi in balia di ciò che puoi in ogni momento avere, bastano due lire o un’autoradio, o la bicicletta o la catenina di qualche poveraccio, che ti par persino giusto sacrificare sull’altare di questo dio venduto in bustine... La droga non è sublimabile. È un furto e un’idiozia ammantarla di eroismo, di valore trascendente, di mito, di fuga dal quotidiano, di sogno, di forza vitale.

Certo il problema tossicodipendenza non è solo questione culturale, di ricerca sviata di un’idea guida. Ci sono interessi sporchi che spingono. E dall’altra parte c’è disagio, incertezza, difficoltà, malessere, senza i quali l’immagine di una vita diversa, disperata purché non quotidiana e banale, non potrebbe attecchire. Ma il colore fasullo del sogno, del mito, della forza superiore, c’è, lo suggeriscono i nomi stessi, eroina − dico, EROINA! non diacetilmorfina come si chiamerebbe all’anagrafe... e anche acido, e crack, e ecstasy, non c’è male, come atmosfera, come proposta di alternativa, di uscita dalla asfissiante, deludente routine.

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Recentemente sono trapelate voci sulla capacità del cioccolato di stimolare specifici recettori neuronali nel “sistema della ricompensa”, e subito qualcuno ha mostrato un certo timore di venir drogato attraverso cioccolato o altri perversi strumenti capaci di surrettiziamente introdurre nel nostro sistema nervoso sostanze capaci di stimolare in qualche misura i centri della gratificazione.

Vi pregherei tutti di non lasciarvi prendere dal panico.

Se volete evitare che i vostri centri della gratificazione vengano attivati basta che oltre ad evitare esposizione ad ogni farmaco d'abuso (leggi droga, nicotina anfetamine ecstasy oppiacei cocaina cannabis ...):

  • evitiate l'assunzione di cibi dolci,
  • evitiate sforzi fisici,
  • evitiate di scambiare parole gentili e soprattutto sorrisi con chiunque,
  • evitiate di impegnarvi in compiti che abbiano anche la minima possibilità di successo,
  • evitiate di esporvi a informazioni o notizie che possano suscitare alcun interesse
  • evitiate di esporvi ad opere d'arte che non siano sufficientemente astruse da evitare ogni reazione di apprezzamento spontaneo (vanno bene gli escrementi di Manzoni per esempio)
  • evitiate mare montagna prati verdi e soprattutto fioriti
  • evitiate di esporvi al sole se avete la sfortuna di apprezzare il bel tempo

Ma soprattutto:

  • evitiate in ogni e qualsivoglia maniera qualunque tipo di attività sessuale.

Tutto il resto si può fare senza pericolo di assuefazione.
Parola di farmacologo.

D'altra parte, è noto che non c'è nulla che dia assuefazione (tolleranza, sindrome d'astinenza, dipendenza fisica e psichica) più dell'amore. Meditate dunque, e se non volete rischiare l'erotodipendenza astenetevene.

Chi vuol esser lieto sia (a suo rischio e pericolo).

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Questo è uno scritto di Lella Costa, in un libriccino pubblicato da Comunità Nuova, una associazione sociale diretta da don Gino Rigoldi a Milano; un libretto che raccoglieva opinioni di gente di cultura e dello spettacolo sulla droga e la dipendenza.

«Mi hanno invitata una volta a scrivere di droga, e dipendenza.

Non mi interessa particolarmente, e soprattutto non sono preparata a parlare di droghe - concetto peraltro estremamente vago e sfuggente. Faccio parte, anagraficamente e in qualche modo anche emotivamente, di una generazione che con quelle robe lì ha giocato e sperimentato, rischiato e - spesso - perso. Pagato, anche, prezzi altissimi. Ho imparato che non sempre quando il gioco si fa duro sono i duri a cominciare a giocare. E ho visto andarsene - male - parecchie persone, ma non tutte erano necessariamente “le menti migliori della mia generazione”.

Sono stata abbastanza fortunata, o abbastanza intelligente, o forse tutt'e due, da non farmi coinvolgere. Spesso mi chiedo se ci sia stato un qualche merito, in questo, o soltanto una serie di coincidenze.

Ma c'è una cosa che mi ha sempre colpito, e tuttora mi colpisce: il concetto di dipendenza. Che non ha solo a che vedere con le sostanze psicotrope e gli additivi chimici e i derivati dell'oppio o anche dell'uva, se è per questo. E qualcos'altro, e viene prima. Penso alla dipendenza sentimentale, o amorosa, chiamatela come vi pare: esperienza sicuramente femminile, ma forse non soltanto.

Penso (e mi ricordo, anche) a quei momenti di panico totale, di dolore paralizzante, di concreta incapacità di respirare, parlare, dormire - vivere - quando la persona amata si nega, si allontana, ci lascia anche solo temporaneamente. E tu pensi “non ce la faccio non ce la faccio non ce la faccio” e scambi per amore la tachicardia, la nevrosi, l'angoscia che ti leva il fiato, e tutte le tue sicurezze si sbriciolano e ti chiedi affannosamente “perché perché”, perché, e come farò ad arrivare a domani.

E ti domandi dove sia sepolta, dentro di te, la causa vera e remota di questa incapacità di vivere; ti domandi chi o che cosa ti è mancato, e quando, e perché; vorresti sapere che cosa ti hanno fatto, magari da bambina, per minare così definitivamente ogni autonomia, ogni certezza, ogni fiducia. Ti domandi perché hai così bisogno di essere rassicurata, ma subito, senza che passi altro tempo. E il tempo, quello che ti terrorizza: il tempo vuoto, lento, intollerabile, spaventoso. Il tempo da riempire, annullare, far passare in ogni modo, a qualunque costo, con qualunque mezzo.

Non ho certo le idee chiare, ma mi pare che se si riuscisse a capire fino in fondo questa dipendenza, questa mancanza; se si riuscisse a stanare davvero dentro di noi il ricordo di quello che ci è stato negato, o che magari abbiamo semplicemente frainteso; se scoprissimo da dove viene quell'incapacità di sopportare l'attesa e il dolore; allora, forse, potremmo cominciare a intravvedere una via d'uscita.

Forse.»

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Magone, languore, nostalgia...

Un languore che non ha motivo chiaro, che talora vorremmo poter dimenticare, un languore che genera sofferenza quando potremmo sopravvivere in pace, un languore che muove ad agire perché non sopporta il tempo vuoto...

Forse proprio perché il tempo vuoto è solo un invenzione per capire la realtà, ma il tempo vuoto, nell'anima, non può esistere.

E’ possibile che, in questo languore che è rimpianto e nostalgia di un’interezza perduta, stia davvero l'origine di ogni dipendenza.

Ma il languore non nasce da qualcosa che ci è stato negato, o sottratto. No. Il languore è il nostro modo di avvertire la forza che là sotto ci muove a pensare e ad agire, anche quando non c'è nulla da cui difendersi, a cui reagire.

Sarà pur l'origine di ogni dipendenza, ma è senz'altro l'origine di ogni creatività.

Non sarà mica l'anima, quel languore?

Ora io chiaramente non ho una risposta precisa a questa domanda, ma quella necessità insaziabile di qualcos’altro no è solo una forza che ci muove, è qualcosa di cui non possiamo fare a meno. E dunque una risposta pertinente credo di averla:

Non potrebbe essere altrimenti!

Noi non siamo programmati solo per sopravvivere.

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Da “Il Re di Girgenti” (Andrea Camilleri)

[Zosimo è proclamato re di Montelusa (Agrigento) dai "viddrani" (contadini) che hanno cacciato i piemontesi. Gli parla il marchese Boscofino, che se lo tiene buono:]

"− La nobiltà di Montelusa non ha ancora pigliato partito: fino a quanno ammazzate savojardi va beni, ma quanno vi metterete ad ammazzari spagnoli, se mai ci arriniscirete ad ammazzarne uno, li avrete tutti contro. Voi siete solo. E non avete a chi domandare aiuto, pirchì nessun altro viddrano è stato capace di fare quello che state facenno voi. E allura a conti fatti, che ci state dando a questi che vi vengono appresso?

Zosimo lo taliò [guardò], sorrise.

− Non lo capirete mai quello che gli sto dando

− Mi sforzerò

− Non potiti, pirchì nun aviti patitu la fami, la miseria nìvura. Ma vi lo dico l'istisso: ci staiu arrigalannu un sognu.

Il marchisi s'inchinò fino a terra."

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E regaliamoceli allora, i sogni.

Viviamoli senza la gretta richiesta garantista che siano davvero possibili, senza l'ingorda pretesa che durino per sempre. Senza il rimpianto quando finiscono, quando allarghiamo appena le dita e lasciamo scorrere e sfuggire il filo, liberando l'aquilone che ha tenuto a lungo il nostro sguardo verso il cielo e ci ha fatto volare con lui.

Conserviamoli quando ci svegliamo, come un tesoro perché li abbiamo vissuti, non una sconfitta perché sono finiti, come qualcosa che abbiamo saputo costruire e vivere, e che sapremo costruire e vivere ancora. Come i bei libri, che restano belli anche dopo che hai finito di leggerli.

Perché sono i sogni, quelli che sappiamo regalarci e regalare, che danno senso alla vita; non il conto delle calorie, la lunghezza della macchina o le settimane alle Maldive.

E una volta che hai imparato, a sognare, non rinunci più.

Il nostro comportamento è mosso e guidato dal cervello, e in particolare dai complessi circuiti che chiamiamo sistemi motivazionali: ma nell'uomo questi non sono solo guidati dagli stimoli esterni...

A motivarci non è solo la fame la sete il freddo il dolore, la necessità, il bisogno.

In quel caso sapremmo reagire agli stimoli, agire per mettere a tacere bisogni fisiologici, difendere noi stessi e chi ci è caro, forse, ma nulla più.

In una regione profonda dell’encefalo, l’area ventro-tegmentale del talamo (la VTA) vi sono neuroni capaci di tradurre stimoli esterni e bisogni interni in impulsi violenti che scatenano attese incontrollabili e gratificazioni irrinunciabili. Sono la base neuronale di quelle che chiamiamo forze motivazionali, alcune fisiologiche, vegetative, altre emotive, affettive. Ma le massicce proiezioni che dalla corteccia incombono su queste regioni mesencefaliche giustificano l’osservazione che altrettanto forti nel guidare il nostro comportamento siano le forze motivazionali, attese e gratificazioni legate all’apprezzamento sociale e a motivazionio razionali, cognitive, etiche e ideali. E a guardar bene, non vi è nulla di strano che un analogo meccanismo trasformi in un bisogno fondamentale − avvertito profondamente come non meno essenziale di quello di cibo, acqua, calore e amore − anche la necessità di valutare, giudicare, agire, e capire e apprezzare, e cercare sintesi armonia e amore.

Ne nasce un languore che il pane non sazia

un languore che vuole musica, e meraviglia e infinito,

un languore che muove ad agire perché non sopporta il tempo vuoto.

E’ vero che lì sia l'origine di ogni dipendenza,
perché qualunque cosa attivi quei sistemi,

sia esso un piacere fisico o mentale,
sia soddisfazione illuminazione o amore,
o ancora sia l'alcol, la nicotina o l'eroina,
beh, sa farsi desiderare e far sentir forte la sua mancanza.

Ma l’abbiamo detto, il languore non nasce da qualcosa che ci è stato negato, o sottratto. No. E’ il nostro modo di avvertire la forza che la sotto ci muove.

Quella forza che si agita dentro ci spinge a superare i nostri limiti, a guardare agli altri, a cercare il loro amore, a comprendere e compatire, a trascenderci e sentirci parte di una realtà più elevata, che travalica lo spazio e il tempo della nostra vita, è un bisogno di partire, di volare, di essere intensamente noi stessi e nello stesso tempo qualcosa di più grande, granello di sabbia nella tempesta furiosa, ma tempesta che abbia un obiettivo, un motivo, un valore, un significato.

Proprio questa forza, questo languore, è quello che noi chiamiamo ANIMA.

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Per una teoria del piacere

Intensità.

Forse, lì sta la chiave di tutto. Dolore, benessere, piacere: forse l’aspetto cruciale è proprio l’intensità.

E l’impegno, l’instancabilità, la dedizione dei neuroni. I circuiti neuronali non possono starsene lì inattivi, non è cosa, non si dà.

Basta guardare un bambino. Mai fermo, mai inattivo. Un cervello predisposto per apprendere, stabilire e rimodellare in ogni istante connessioni nuove, per fissare nuove conoscenze, sviluppare nuove interpretazioni, rileggere la realtà in ogni momento. E un cervello fatto per agire, intervenire sulla realtà e modificarla. E i neuroni specchio che imitano e spingono simulare e riprodurre per imparare.

Il bambino che gioca ripete azioni che ha visto eseguire dall’adulto. Le ripete per IL GUSTO DI RIPETERLE. Raramente il gesto dell’adulto non ha uno scopo, raramente l’azione ha in sé il suo significato: più spesso è strumentale, ha il suo scopo e il suo valore in ciò che determina e produce (è il primo passo dell’alienazione, che si completa se il prodotto dell’azione è a sua volta strumentale, ceduto − alienato − in cambio della sussistenza). Il bambino invece riproduce il gesto in sé, e il suo scopo è nel gesto, il suo valore nella riproduzione per se. Non fa differenza se il cavallo è una scopa, se il volante è un piatto di carta, non deve portarti da qualche parte, non deve girare le ruote, deve solo permetterti di essere il papà che guida, e provare l’indubbio piacere che lui prova guidando (se no, perché lo farebbe?).

Non è qualcosa che abbiamo perso crescendo, anche se fanno di tutto per togliercela: siamo ancora capaci di giocare, di perdere un pomeriggio a costruire la cuccia del cane invece di comprarla già fatta − per la sola soddisfazione di averla fatta con le nostre mani, e ancor più per IL GUSTO di farlo, di leggere un libro per meravigliarci, per provare emozioni, per IL GUSTO di leggerlo... Di fare una partita per IL GUSTO di stare insieme, di battersi, di impegnarsi e faticare e sorridere e abbracciarsi alla fine − dio che delitto trasformare le squadre sportive di bambini in eserciti, con graduati e ufficiali, e promozioni e alienazione del piacere di giocare in bisogno di vittoria, e che disgusto i genitori tifosi che spingono su questa strada, e fanno dello sport dei figli un mezzo di autoaffermazione e aggressione indiretta...

C’è qualcosa dentro che spinge, a fare per il gusto di fare, a guardare per il gusto di guardare, e di capire, a imparare per il gusto di scoprire. Un cervello incapace di fermarsi, curioso, avido di emozioni e produttivo.

Un grande privilegio evolutivo, perché favorisce l’apprendimento, lo sviluppo di sempre nuovi approcci e soluzioni di fronte ai problemi vitali, la possibilità di sopravvivere in qualunque situazione e di fronte ad ogni cambiamento, e magari anche di vivere meglio.

In conseguenza di questo, però, anche impulsi motivazionali che bombardano ininterrottamente i centri che muovono all’azione. Ma perché, che senso ha? La causa, va bene, sta nell’organizzazione stessa del sistema nervoso, nell’instancabilità dei neuroni. Ma il fine? a che serve tutto ciò?

Serve a rimescolare, muovere, arricchire il gioco motivazionale. A renderlo più bello. Per certi versi è un circolo vizioso (meglio, forse, virtuoso): la continua attività cerebrale di rilettura, e ricerca di nuove interpretazioni, prospettive, sguardi unificanti è caratteristica intrinseca della organizzazione della corteccia cerebrale stessa, e d’altra parte il suo successo − sorpresa, meraviglia, intuizione, comprensione, riscontro di armonie − si traduce in piacere, e ciò rinforza e sollecita ulteriormente questa attività, questa ricerca infaticabile. E al tempo stesso tutto ciò arricchisce e complica il quadro pulsionale, trasformando il confronto tra poche e banali esigenze fisiologiche in un variegato, molteplice e mutevole, complesso gioco motivazionale. Materiale prelibato a sua volta per ricerca di nuove armonie, e piacere estetico e passione etica.

Certo. Vien da dire “ma quanto tempo, quanta fatica gettati”... Ma il cervello non ha altro da fare! e i neuroni, loro, zitti non ci stanno!

E in fondo non si vede che ci sia da lamentarsi, se questo circolo vizioso-virtuoso, questo spreco di energia neuronale ci regala la bellezza, il piacere, l’emozione, la gioia di un gesto d’amore...

Dunque, esigenze fisiologiche, bisogni affettivi e sociali, bisogno di comunicazione, e a rimescolarli e trascenderli la curiosità, la voglia di novità, la voglia di fare, la voglia di armonia e di bellezza.

Visto così, il quadro non è male: se la spassa, in fondo, il cervello: gioca al gioco che gli piace, e da solo si compiace.

A patto che qualche pulsione, qualche forza che ravviva il gioco, ci sia.

E a patto che queste pulsioni non siano troppo forti, tanto da rovinare il gioco, violente tanto da far terra bruciata del resto.

Non ho più voglia di andare avanti, con questa teoria del piacere: a questo punto è tutto così ovvio...

Il piacere di un languorino allo stomaco, di un po’ di spossatezza dopo una fatica, di un fresco un po’ frizzante, di un tepore magari un filo eccessivo, di informazioni stimolanti, di un minimo di emozione − bella, se si può, ma ci va benissimo anche un filo di ansia, prima del calcio di rigore, o un po’ di paura giù per la discesa − magari un filo di dolore (ci sono anche quelli a cui piace un sacco...), uno spavento, un po’ di commozione (un bel film “da piangere”), magari un bel magone...

E il fastidio quando la fame, il sonno, il freddo, il caldo si fanno sentire troppo, quando il frastuono ti confonde, l’emozione ti stravolge, l’angoscia, la paura, la tristezza senza speranza...

Insomma, è l’intensità giusta, più che lo stimolo, che fa piacere. Più forte fa male. Persino le cose belle, anche se in quel caso il dolore e lo sgomento diventano essi stessi belli, in un climax di tensione in cui pare di annegare... “e il naufragar mi è dolce...”

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Una ragionevole quantità di quiete, per sopravvivere. Una ragionevole quantità di intensità per vivere. Due forze che ci muovono nel profondo, in un gioco di disagio (dolore) e gratificazione (piacere). Un gioco di attività neuronali in cerca di equilibri e armonie.

Un gioco sostenuto dalla vita, che ne riflette le regole e i meccanismi: riaffermarsi nel cambiare, e così crescere e costruirsi. Avere il coraggio di scegliere, di decidere, e ritrovarsi diversi. E talora ritrovarsi confusi, e spaesati, perché a poco a poco, magari senza accorgerci, abbiamo corroso pilastri essenziali del nostro equilibrio. E non poter tornare indietro, perché non il destino, o i nostri geni, o l’esperienza, ma il modo in cui abbiamo vissuto NOI ogni momento della nostra vita ha scritto nei nostri neuroni il NOSTRO modo di affrontare la realtà, di interpretarla e pensarla, di affrontarla e cambiarla. E questo siamo NOI, non si può tornare indietro, cancellare il cervello, resettare i neuroni, si può solo cambiare ancora, magari a fatica, procedere lungo una strada nuova e costruire nuovi equilibri, nuove sicurezze, nuove incertezze, nuovi desideri, nuovi sogni.

Talora è difficile tenere il passo, e sopravviene un bisogno insaziabile di silenzio, di pace, di sicurezza.

Ma non basta.

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Adattamento

I nostri sensi si adattano a segnali costanti, la luce ci abbaglia solo per qualche momento, i rumori improvvisi fanno trasalire, non si lasciano trascurare e disturbano, ma se persistono paiono svanire e non ce ne accorgiamo più...

Anche l’anima si adatta: si gioisce di più di un miglioramento e si soffre di più di una delusione, piuttosto che di tutto ciò che si ha o non si ha, o si è o si fa.

L’anima come l’occhio avverte la differenza. Soffre per qualcosa di meno ed è felice per un niente in più.

E si abitua in fretta. E la felicità si deve ricostruire attimo per attimo, tutta la vita

E se è arduo esser felici, più arduo ancora è giudicare dolore e infelicità degli altri.

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Io non capisco le donne. ma forse a poco a poco comincio a intuire qualcosa.

Gli uomini sono addestrati a costruire le situazioni, a battersi contro la natura le cose la società gli altri, per cambiare gli aspetti concreti e pratici della realtà che li circonda e costruire uno spazio e un ruolo per sé. Le donne sanno costruire l’atmosfera, si battono contro se stesse non meno che contro tutto il resto per aiutare la natura, le cose, la società, gli altri ad entrare in sintonia, realizzando uno spazio e un clima in cui valga la pena di vivere.

E così per una donna amare significa esserci, garantire la presenza del proprio corpo, della propria voce, del proprio impegno, del proprio affetto, delle proprie cure. Non imporla, garantirla. Un’atmosfera, una musica. La donna offre CURA. E forse si aspetta lo stesso dall’uomo. Lui cerca di capire, non di entrare in sintonia, ama chiedendo e dando secondo i suoi ritmi, secondo una logica. Offre, e chiede, TEMPO. Non musica, non cura.

E se non si trova sintonia, ci può essere tutta la dedizione che si vuole, ma l’amore cresce asfittico, povero. Perché nel rapporto deve entrare la linfa, la vita, l’emozione, il dolore e la gioia di una persona intera, che vive lotta soffre costruisce e sogna, non la dedizione di un cane che vive delle tue carezze e del cibo che gli dà la tua mano.

Perché l’affetto è una casa accogliente venendo dalla strada grigia, umida, fredda. È un’aspirina quando hai il mal di testa. Ma non è l’amore.

L’amore è una canzone nuova, splendida e travolgente. Non puoi sfuggire la sua melodia, ti resta in testa e risuona e ricorre e ti culla e ti coccola. Le sue parole ti tornano in mente e ti portano lontano. E non puoi continuare ad amare se la canzone non ti martella, come il miraggio di un luogo inesistente, di sensazioni imprecise e lontane, di equilibri che forse possono esistere ma non sai come né dove.

E non puoi continuare ad amare se non c’è una parte dell’altro che continua a sfuggirti, e mancarti con dolore. Non sei drogato se non provi la scimmia. L’affetto è la dolcezza di qualcosa che hai. L’amore è la sofferenza di qualcosa che vuoi, di cui hai bisogno.

Fossimo capaci di viverlo così! Garantire una presenza, ma lasciare all’altro la sua vita, che non ci stanchi e non si lasci possedere. Ma non perché sfugge, non perché non c’è: perché vive cresce e si realizza, evolve e cambia ed è sempre nuovo. E avere in cambio la sicurezza della sua presenza, del suo amore, del suo interesse per ciò che IN NOI si muove, del suo desiderio che noi viviamo e cresciamo e CAMBIAMO, in modo da poter trovare ogni giorno in noi qualcosa di nuovo e di inatteso, qualcosa da scoprire, qualcosa che sfugge...

Perché ogni cosa viva, come il fuoco, richiede una cura attenta e continua. Puoi godere il tepore, e l’incanto del suo inarrestabile inseguirsi e rinascere, e sapere che è ancora vivo sotto la cenere, ma non puoi trascurare di ravvivarlo prima che le braci si assopiscano.

E questa è l’atmosfera, la musica vera... godersi il ritmo, godersi la melodia esaltante, ma sapersi godere anche il blues. Avvertire il bisogno di impegnarsi la sofferenza di dover fare, di non poter stare a guardare, ma saperne gustare il sapore acido e stimolante.

Perché la realtà è fatta di carne e di sangue e di emozione. Di musica. E la sostanza della vita è la musica che suona dentro e fuori di te. Devi saperla sentire, con la pelle, con il sangue, con il cuore.

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E dunque talora la necessità di un attimo di quiete. Ma sempre, la necessità di intensità, di passione, preme. Il bisogno di essere intensamente se stessi e al tempo stesso qualcosa di più grande.

È un’esigenza che l’identificazione con un gruppo sociale − il gruppo dei pari tra giovani, la tifoseria della squadra, il gruppo di volontariato, di iniziativa sociale e politica, la patria, l’esercito, persino l’azienda per i Giapponesi − è in grado di soddisfare. È un’esigenza che prende possesso e travolge negli entusiasmi di massa... È un’esigenza che sa amplificare e moltiplicare mille e mille volte ogni pulsione, bisogno, desiderio e anelito − amore solidarietà e compassione, ma anche aggressività, difesa rivalsa e avversione − mutandolo magicamente in passione.

L’aspetto triste di questo meccanismo è che non è sempre facile trovare sintonia su progetti, aneliti ideali e slanci umanitari, mentre basta un nemico, un diverso, un limite, un simbolo sul quale si proietti la paura, la minaccia da cui difendersi, perché l’aggregazione, la condivisione e l’identificazione col gruppo scattino immediatamente scatenando travolgenti passioni. Facile unirsi, mobilitarsi, appassionarsi CONTRO. Più difficile unirsi e appassionarsi PER. Forse questo è anche il motivo del crescente disagio nella sinistra italiana, della sua sempre minore capacità di aggregazione, di stimolo e coinvolgimento. Forse, perché in realtà forse invece basta l’impoverimento ideale, la sempre più vaga e confusa percezione di un qualunque principio guida che orienti la strategia politica, e che non sia banalmente e demoralizzantemente la mera occupazione del potere.

Ma senza rubare il lavoro a psicologi e sociologi, e riscrivere trattati di psicologia di massa, dovrebbe essere chiaro con tutto quanto abbiamo discusso fin qui che l’origine anche di questo meccanismo di amplificazione della pulsione sta nel gioco fisiologico delle forze motivazionali e della produzione di dolore disagio benessere e piacere. L’amplificazione nasce dalla convergenza e coincidenza della forza motivazionale individuale con il piacere della condivisione, dell’apprezzamento sociale, del legame affettivo, della appartenenza e della protezione che ne deriva. E a questa si aggiunge (si meta-sovrappone da fuori − da oltre?) il piacere sublime, interiore, della armonia tra le forze motivazionali, concordi e unificate in una musica molteplice e coerente, variegata e sempre nuova ma rassicurante e avvolgente.

Comunque, soli o nella massa, un modo di trascenderci, nell’intensità di una passione, una via per proiettarci verso l’infinito, con i sogni la meraviglia lo studio l’amore l’impegno... Un modo e una via vanno trovati, da ognuno di noi. Se no si rinuncia all’anima. Oppure si soffre, ci si sente mutilati, come di fronte a un puzzle al quale mancano dei pezzi, irresolubile; come davanti a una scelta che non permette una soluzione accettabile, che non può essere esaminata con sguardi diversi senza contraddizione, senza che vengano negate esigenze irrinunciabili messe a conflitto.

Necessità di superarsi − di negarsi, abnegarsi, mi vien da dire per la mia profonda impostazione cattolica, ma non è così!, è realizzarsi, affermarsi davvero pienamente − per essere se stessi, di negare al corpo piaceri per ottenere piaceri più profondi, di gettare sul piatto tutto, anche la vita talvolta, perché c’è qualcosa che vale di più, ma non fuori di noi, IN NOI, non contro di noi, PER NOI, per stare bene, per essere felici.

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E ci troviamo ancora a vagare tra livelli diversi. Piaceri fisici e metafisici. Motivazioni e metamotivazioni. Pulsioni individuali e metapulsioni collettive...

E ancora, ogni volta che si valica un limite e si cambia prospettiva sembra di parlar d’altro, mentre semplicemente lo sguardo si è ampliato e innalzato. Viene voglia di associare un nome a ciò che permette questo cambio di sguardo. Vien voglia di chiamare ANIMA ciò che ci permette di trasformare il gioco delle motivazioni in affetti, amore, solidarietà, ideali, e ogni missione che ci trascenda come individui. E di chiamare anima la capacità stessa di trascenderci, di superare i limiti del nostro corpo, bisogni e dolore e angoscia e paura della morte, di superare i limiti della nostra vita, invadendo l’anima e la memoria di altri, evadendo così dai limiti delle poche decine di anni che possiamo trascorrere sulla terra.

Ma questa “anima” è come la “vita”. Parola che pare dare essenza separata ad un principio astratto. Ciò che distingue l’essere vivente dall’inanimato è un complesso insieme di meccanismi fisici che si esprimono in un criterio di organizzazione, e si trascendono in un principio astratto: la VITA. Forma non meno reale della materia, immanente nella materia vivente, fisico e fuori della fisica. Interno e che va oltre. Metafisico, appunto, propriamente e precisamente.

Ciò che distingue l’uomo dall’animale è un complesso insieme di meccanismi neuronali che si traduce in una complessa vita razionale e motivazionale, intrisa di aneliti trascendenti e pulsioni verso armonia, bellezza, intensità, infinito. Anche qui un criterio di organizzazione, che realizza un principio astratto: l’ANIMA. Forma non meno reale della materia − sulla cui origine e eternità ci si può interrogare, − ma che per nulla viene sminuita nel riscontrare la sua piena immanenza nella neurobiologia dell’uomo, principio fisico e fuori della fisica, biologico e fuori della biologia. Interno e che va oltre. Metafisico, appunto, e metabiologico. Propriamente e precisamente.

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Siamo arruffamenti del nulla.

La fisica quantistica è poesia, scherza con il mondo perché con ironico distacco lo capovolge lo rivolta come un guanto per mostrare che dentro non c’è niente, lo scombussola e ce lo ripresenta paradossalmente sminuzzato e riassortito secondo logiche illogiche che si intuiscono nella loro incomprensibilità: materia che è energia coagulata, realtà tangibile generata da instancabili oscillazioni del nulla... Ipotesi divertenti la cui verità e realtà non ci cambia un attimo dell’esistenza.

Puro cabaret...

E gioca un ruolo importante, per gli spiriti sofisticati e inquieti, come la matematica per chi è disposto a capire che tratta sì di bilanci, di declinazioni astrali e di criteri costruttivi di piramidi, ma in realtà di tutt’altro si occupa, cerca la sua coerenza in altri spazi e dimensioni diverse. E’ la stessa funzione della musica, per chi abbia voglia, oltre a goderla dentro, di definirla e catturarne l’essenza e la materia.

Sono giochi belli.

Perché quando sentiamo il suono, i meccanismi del nostro ragionar consapevole ci obbligano a cercare l’oggetto o il fenomeno che l’ha prodotto; così come di fronte alla macchia di bonaccia disegnata sul mare tra vaste pennellate di ochette e increspature ventose, ci rassicura riconoscere che è comunque acqua, e non vuoto/nulla, a mostrarsi calma o perturbata.

Horror vacui. Ma se superiamo l’orrore, l’anima, la musica la matematica la fisica quantistica ci lasciano intuire l’esistenza assoluta di armonie, di logiche, di energie e processi, l’esistenza materiale, la dinamica e la vita, di relazioni, non meno reali in sé degli oggetti che possono legare.

E’ una parte del mondo che la pelle non sente gli occhi non vedono, non fa rumore non ha odore o sapore, e che occorre imparare a intuire, sentire, interpretare con strumenti cognitivi adatti, che usiamo poco, troppo poco, e troppo rozzamente sappiamo usare.

Impareremo?

Forse questa è la nuova tappa dell’evoluzione, perché se il grande passo l’abbiamo fatto, lasciando indietro le scimmie, conquistando la consapevolezza coerente di noi stessi nel mondo, ancora molta strada resta da fare, molta consapevolezza resta da conquistare.

Perché troppi credono che la musica sia aria perturbata e non le perturbazioni (turbamenti?) in sé, troppi si domandano come il vuoto possa perturbarsi, mentre dovrebbero emozionarsi per un mondo intero generato dalle perturbazioni (da turbamenti?) del nulla.

Ancora poco conosciamo di noi stessi e del mondo, se è vero che, come diceva il poeta, “siamo fatti della materia di cui sono fatti i sogni”

E dunque è ora di finirla di considerare oggetto di scienza solo ciò che è fisicamente tangibile. Se i quanti sono perturbazioni del nulla e la materia è fatta di quanti, che cos’ha di meno l’anima, riflessione, arricciamento, turbamento del nulla?

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Forse non moltissimi scienziati condividerebbero tutto questo. Credo però che a fronte del cervello, accontentarsi di meccanismi elementari non porti a capirne nulla. La visione comoda, dominante anche se inconsapevole, di buona parte della comunità scientifica, di fronte al sistema nervoso, è il vederlo come strumento per produrre le risposte giuste agli stimoli esterni e interni. È comodo, perché si possono studiare i meccanismi di ogni risposta e costruire un quadro “riduzionistico”, “deterministico”, che permette di descrivere alcuni comportamenti. Credo che questo, per il cervello umano, sia profondamente non solo limitato, ma proprio sbagliato.

Si pensi a una società tribale, struttura sociale e economica molto semplice: i comportamenti del gruppo sono abbastanza ben descrivibili e prevedibili sulla base della conoscenza delle regole sociali e delle principali esigenze e forze che muovono i singoli. Il singolo trova facilmente una sintesi tra bene personale e bene collettivo e si muove generalmente in modo coerente con il vantaggio e il benessere sociale. In una società complessa, stratificata, dove dinamiche economiche e sociali si intersecano e contraddicono, non ha più senso cercare di spiegare i fenomeni sociali come risultato delle motivazioni e aspirazioni dei singoli: conoscessi anche nel più minimo dettaglio la psicologia del singolo non spiegheresti molti aspetti e distorsioni della società e dell’economia. Occorre un approccio complessivo all’economia, una sociologia, una politica − non nel senso di masnada di politici ma di teoria e gestione della convivenza sociale. Non porta a nulla, a fronte di inaccettabili distorsioni, cercarne l’origine in una tara dei singoli: il sistema complesso di cui fanno parte aggiunge del suo, ad un altro livello. Questo è ciò che intendo per meta.

Credo che non si possa considerare la comunità scientifica come una lobby, un gruppo compatto. Ma tutto quello che ho detto e scritto credo rappresenti un atteggiamento diffuso in buona parte della comunità scientifica, e comunque tracci la direzione in cui si sta muovendo la scienza: non rinunciare a porsi domande anche su terreni incerti come emozioni, sogni, coscienza e creatività.

Molti, di fronte a queste argomentazioni, potrebbero sinceramente dire che non hanno alcun bisogno di spiegazioni scientifiche su questi temi, e magari preferirebbero una scienza che non provi neppure a dare spiegazioni che nessuno ha richiesto...

Ma questo è un equivoco, perché la scienza non è arte di dare le risposte, e tantomeno è una raccolta di risposte − semmai, è l’arte di porsi le domande giuste.

Mi piace parlare un momento di scienza, perché è fatta coi neuroni e credo sia anch’essa una parte dell’anima. Per certi versi la scienza, che nasce − o rinasce in senso moderno − con Galileo e compagni, da bambina, come ogni bambino essenzialmente rivendicava il diritto a porre/porsi domande, e come ogni bambino era frettolosamente propensa a far sua ogni interpretazione apparentemente ragionevole, pur di cercare di comprendere. Diventata adulta ha posto più attenzione alle risposte: vuole risposte e quando ne trova una vi si abbarbica. Ormai il nemico di ogni nuova idea scientifica non è più la chiesa ma quella che alcuni amano chiamare la comunità scientifica, cui è caro ogni dogma vigente. Si diceva di limiti e di difese per sopravvivere, senza capire che vivere è cambiare e mettere/mettersi in discussione... Oggi la scienza è matura, occorre, come per ogni adulto che ne abbia il coraggio e la forza, saper tornare bambini, non fermarsi di fronte a nulla, rivendicare il diritto a far domande, a provare nuove letture, a scoprire, stupirsi e meravigliarsi...

Viviamo in una cultura segnata da due stereotipi contrapposti.

Il letterato-poeta, che sa sgomentarsi di fronte alla siepe e all’infinito che essa nasconde, che sa sbirciare oltre con timida e riverente immaginazione, quasi temesse di perdere il fascino dell’incerto, del vago, dell’indefinito

E lo scienziato che freddamente si adopera per aggirare ogni siepe per guardare sempre più lontano.

Ma l’uomo intero sa godere appieno dello sgomento dell’infinito nascosto e immaginato, ma sa con fiducia provare a guardare oltre, senza timore di perdere l’infinito, sicuro anzi che troverà altri mille nuovi infiniti nascosti, di fronte ai quali sgomentarsi, e mille altri ostacoli da superare. Purché non perda la capacità di stupirsi e di godere l’incanto della meraviglia.

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Anima dunque come forma immanente nella neurobiologia dell’uomo, principio biologico fuori della biologia. Metabiologico. Propriamente e precisamente.

Mah, con tutto questo non abbiamo DIMOSTRATO nulla.

Abbiamo solo visto che quasi tutti gli aspetti che normalmente si riconducono ad una dimensione spirituale della vita, ad un’anima, si possono mettere in relazione con funzioni note o comunque studiabili del sistema nervoso. Molte delle affermazioni fatte in queste pagine sono scientificamente sostenibili (in accordo con tutte le conoscenza sperimentali, non basate su alcun assioma indimostrabile ed eventualmente confutabili attraverso studi appropriati) e quindi possono essere considerate una accettabile verità − provvisoria, fino a prova contraria. Molte altre affermazioni sono solo ipotesi di lavoro; anch’esse non contraddicono dati sperimentali, ma si basano su osservazioni ancora molto scarne e su una buona dose di intuizione e interpretazione arbitraria; sono IPOTESI DI LAVORO, a favore o contro le quali è possibile ottenere verifiche e riscontri, e che possono essere ampiamente estese e rielaborate sulla base di nuove osservazioni che si accumulino via via.

Restano certo molte altre questioni − se l’anima sia immortale, se venga direttamente da dio, se si reincarni dopo la morte, e quant’altro si voglia domandare. Da un lato, queste domande riguardano qualcosa di estremamente evanescente, perché se l’anima non è ciò che è necessario per l’emozione, l’affetto, l’eticità, il senso estetico e il bisogno di infinito, se non è intessuta di memoria, di desideri sogni ideali e aspirazioni, fuori del corpo le resta solo uno scarno alito un po’ insulso, un soffio che non può sentir battere il cuore e contorcersi le budella, piangere o ridere, che potrebbe anche vivere all’infinito, ma una vita che non si riscrive in ogni momento, non cambia, non VIVE.

Oggi ci è facile immaginare ad un robot capace di imparare, costruirsi un’immagine di sé, soffrire e amare − certo più facile immaginarlo, fantascientificamente, che pensare di costruirlo, scientificamente. Per quanto irrealizzabile, proviamo a immaginarlo. Dov’è il suo IO? nell’alimentatore, che gli dà corrente e energia, nella forza immateriale che lo tiene vivo? o forse nelle informazioni, nei ricordi, negli apprendimenti e nelle esperienze registrate nel suo chip di memoria? Spegniamo l’interruttore, togliamo la corrente e l’avremo ucciso, ma azzeriamo la sua memoria e avremo distrutto tutta la sua individualità, l’avremo ucciso ben più crudelmente.

E già che fantastichiamo, spostiamo il suo chip in un altro robot, o trasmigriamo un’anima nel corpo, e nel cervello, di un altro: si troverà a leggere una memoria, un habitus di ragionamento, un’affettività, un’abitudine di reazione, un atteggiamento etico e estetico, che sono scritti nel sistema nervoso e non sono i suoi... suoi... di chi?

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