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Fisiologia dell’anima - o, se preferisci, - neuroni & anima
Riccardo Fesce - tutti i diritti riservati (editori e agenti interessati, inviare una mail)
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III

Tutto e oltre − IL LIMITE

Il bimbo avanza, deciso ma attento, appoggia i piedi con studiata misura. Due passi lunghi, uno corto, ancora due passetti, uno più lungo. Ce l’ha fatta, ha attraversato tutto il lastricato senza calpestare neppure una delle giunture delle piastrelle, senza tradire nessuno dei limiti astratti e inviolabili che segnavano la sua strada.

Oh, non che sia facile uscirne, anche da adulti. Come non è poi così facile unire con solo quattro tratti rettilinei, senza staccare la penna dal foglio, questi nove punti: . (per chi, sebbene così sfrontatamente aiutato, non abbia trovato il modo, la soluzione è qui)

E’ che il limite ci colpisce, ci attira, ci ipnotizza. E ci limita.

Troppo abituati dalla realtà degli oggetti a vederne il confine e il contorno, a riconoscere dove il limite separa la terra dal cielo.

I confini incerti emozionano come pericolose trasgressioni. Affascinano, certo, ma ridestano intenso il desiderio e il bisogno di terraferma, di appoggi sicuri su cui posare i piedi. E finisce che cerchiamo limiti chiari e confini anche dove non vi è motivo che ci siano, giusto per non confonderci, per saper distinguere e orientarci.

Eppure di fronte alla vita, che si regge sul cambiare per persistere, sul rimodellare, e valicare in ogni istante, il confine col mondo, con la realtà esterna, anche la nostra sublime capacità di imporre nomi, e confini e differenze, si mostra inadeguata. Si avverte ineluttabile la necessità di conciliare due approcci, due visioni, la materia con le sue leggi, e qualcosa di diverso, di altro, che richiede uno sguardo attento ad aspetti vaghi sfuggenti e molteplici.

Sì, la vita ci mette nei pasticci: in che momento il baco, nascosto nel suo bozzolo, non è più baco e diventa farfalla? per carità, non parliamo poi di embrioni e vite vegetative, e morti rinviate, in che momento l’anima arriva e quando se ne va... Abituati al limite ovvio che racchiude un corpo, separa due tipi di materia, dà realtà agli oggetti, ci par di dover separare e sezionare allo stesso modo eventi processi e sviluppi che gradualmente, più o meno rapidamente, fluiscono attraverso fasi diverse. Forse è indispensabile, forse inutile. Certo difficile: poche cose son così diverse tra loro come la vita e la morte, eppure si fatica a cogliere il confine preciso.

E questo succede proprio perché, se ciò che non ha vita persiste solo quando è tanto forte o tanto protetto da non venir attaccato e modificato, la vita si sostiene solo nel continuo cambiare, nell’erodere il limite, si afferma negando in ogni istante ciò che è già stata, valicando il confine tra come è − ciò che in questo momento è − e come sarà, ciò che sarà.

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La vita persiste erodendo i suoi limiti. E allora forse occorre cambiare la nostra prospettiva sui LIMITI in generale, e considerarli come linee di passaggio, di interazione e interferenza. Significa forse che possiamo estendere gli approcci che funzionano così bene nei domini semplici delle nostre conoscenze a qualsiasi altro ambito, per quanto complesso? Significa forse che la fisica può spiegare, oltre alle forze e ai processi del mondo inanimato, anche la nostra vita, magari anche il pensiero, come fossimo costruiti con circuiti intercambiabili, uguali per tutti?

No di certo! nessuna persona sana di mente oserebbe mai dire che i nostri circuiti sono intercambiabili. Di fatto, nemmeno noi stessi siamo uguali a come eravamo ieri; ne dovremo parlare. Ma certo non siamo riducibili a circuiti, formule, onde, equazioni.

Non siamo riducibili!

Ma se il problema fosse quello di cambiare la prospettiva, ma non su noi stessi, piuttosto sulla fisica?

Per questo occorre davvero uno sguardo nuovo...

La fisica è chiara, rassicurante (nessuno si faccia prendere dal panico, ora spiego in che senso...). Oggetti, energia e forze misurabili. Cose precise e finite, limiti, relazioni causali. Dove i rapporti sono complessi e ordinati, pare vi debba essere un disegno; e invece no, finché di fisica si tratta, i fenomeni non sono che il risultato inevitabile dei fattori e delle forze in gioco.

Ma la nostra esperienza quotidiana è segnata dall’uomo: eventi guidati da motivazioni e fini, più o meno espliciti, trasparenti, validi. Più oscure, mediate, inaccessibili le cause. E dove cause e meccanismi sono mascherati e difficili da intuire, è più facile immaginare motivazioni, fini, o comunque volontà, per quanto arcana e arbitraria. Sì, arbitraria, perché questo è il dominio della vita in generale, e la quintessenza della vita umana: arbitrarietà, libertà da cause materiali ineluttabili e necessarie, per quanto nascoste, coerenti, prevedibili almeno a saperne abbastanza, e mai arbitrarie.

Un paradigma interpretativo confortante, malleabile, potente, soddisfacente. Una visione semplice, efficace, tranquillizzante: ciò che non è inevitabile per evidenti cause fisiche è prodotto di scelte e volontà, sensate o assurde che siano, umane o, dove l’uomo non si vede, divine.

E’ lo sguardo del bambino, che afferra solo alcune relazioni causali, e in tutto il resto vede all’opera l’onnipotenza dell’adulto.

E’ lo sguardo del mito, che esaurite le spiegazioni fisiche si affida all’onnipotenza degli dei.

Non è stupida creduloneria da ignoranti. Per certi versi è anche lo sguardo, cauto e smaliziato, sistematico e penetrante, di Aristotele: per una casa ci vogliono i mattoni (causa materiale), il muratore (causa efficiente), il progetto (causa formale) e il bisogno di un tetto per ripararsi (causa finale).

Sì. C’è un fine e c’è un disegno. Dovunque c’entri l’uomo.

Però non in tutto c’è fine e disegno. Bisogna sapersi fermare. Occorre riconoscere dove cause formali e finali non occorrono, e solo servono a placare l’esigenza ancestrale di attribuire a una mente superiore il disegno di un ordine che par troppo accurato per esser nato da sé, tanto accurato da potersi reggere, una volta avviato, indefinitamente, applicando regole causali che più non chiedono l’intervento di alcuna volontà, di alcun timoniere, di alcun dio − se non per realizzare un miracolo contravvenendo alle regole e umiliandole.

Quanto sappiamo oggi ci permette di leggere temporali e eclissi, orbite planetarie e terremoti, buchi nell’ozono... e persino estinzioni di dinosauri, architetture di formicai, linguaggi delle api, anche le convulsioni epilettiche della sibilla, senza scomodare arbitrii, cause formali, finalismi, demoni e provvidenze.

La storia dell’umanità è un racconto di sempre nuove letture: ogni nuova scoperta sposta il confine tra fisica e metafisica. Tra una teoria delle cause e una teoria dei fini.

Fisica e metafisica. Forse il confine sta proprio lì, dove le cause non bastano più e interviene la scelta la motivazione il fine la volontà. E finché un ranocchio fa solo cra-cra, e fugge al rumore e salta per prender mosche, pur con tutta la complessità e finezza dei meccanismi e processi che l’hanno guidato fin lì, da quando era girino, con tutta la meraviglia della vita che lo spinge lo guida e lo pervade, beh, finché fa sempre e solo ciò che ci si aspetta faccia, è difficile concedergli un’anima.

Forse, in fondo al cuore, in quel marasma da cui peschiamo sensazioni e giudizi chiari e definitivi, che paiono incisi lì profondamente da altri, prima, da sempre, forse lì è spiegato chiaramente come riconoscere l’anima: è dove c’è possibilità e capacità di scelta, è dove la lettura del mondo non è obbligata, dove il gesto non è solo istintivo, dove è possibile il comportamento che non necessariamente segue il proprio interesse − e non per istinto protettivo o della specie, no, − dove è possibile che il comportamento sia guidato da altro, da valori sociali, altruistici, ideali, da forze che non sono cause che vengono dal mondo delle cose, ma motivi fini aspirazioni sogni passioni che vengono d’altrove, da quel che c’è sempre piaciuto chiamare il mondo delle idee.

Ma se questo è il confine, allora la scienza deve osare andare oltre, invadere la SCELTA e la VOLONTÀ. Perché molti aspetti dei meccanismi neuronali della scelta, della motivazione, della finalizzazione del comportamento, sono ormai chiari.

COMMENTI:
from: il falco (mail)
ma si sta parlando del "Reame Platonico"
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Qui torna il problema del limite, della separazione, del diverso, dell’«altro».

E’ altro, dunque, l’anima? E’ altro, il mondo delle idee, altro di cui la realtà materiale è solo ingannevole simulacro… Altro, che non c’entra, da cui si può agnosticamente prescindere, presi dal brulicare del mondo…

Questa è la frattura che oggi dovrebbe divenire confine, da valicare con coraggio: fisica, guidata da cause e leggi, da un lato; metafisica, guidata da scelta e fini, dall’altro; scienza da una parte, poesia dall’altra. Forse la via è proprio questa: una scienza che non rinunci alla poesia. Una scienza che non tema il limite, che sia capace di guardare alla vita come processo e avventurarsi a studiare l’anima, almeno per quanto di essa può essere ragionevolmente esplorato, studiato, conosciuto, capito.

Per avvertire questa nuova prospettiva è necessario addestrarsi a guardare ogni aspetto della realtà, e ogni processo conoscitivo, allo stesso tempo da dentro e da fuori, avvertendo i limiti di ogni singolo approccio e ogni singola logica che impieghiamo, ma senza ripudiarli dopo riguardando indietro.

Per capire dove siano le radici profonde di tutto questo nel cervello è necessario evitare di lasciarsi fermare dal limite, divenire capaci di meta, imparare ad avvertire le relazioni tra mondi che sono diversi, altri. Insomma, bisogna saper superare la sensazione che “va bene, tutto quello che vuoi, il cervello fin dove vuoi tu, ma l’anima comincia dove finisce il cervello”.

Forse il LIMITE non è il solo problema. Ma non è un caso che i problemi più difficili da risolvere sono quelli che richiedono di valicare un limite, uscire dalla cornice, dallo schema che nessuno ci ha imposto, ma che comunque noi abbiamo immaginato lì a fermarci, insormontabile.

Accettare questa frattura tra la lettura fisica, guidata da cause e leggi, e una metafisica guidata da scelte e fini non solo impedisce di cogliere la relazione tra meccanismi e interventi attivi, ma obbliga a restringere l’ambito di ricerca esplorazione e analisi empirica, rafforza la scissura tra approccio scientifico e cultura umanistica, e ribadisce la logica e la cultura del limite. E dire che ormai sarebbe tempo di grandi unificazioni. Sarebbe tempo di capire che uno stesso luogo, tranquillo e accogliente, può ospitare la meditazione e la preghiera di fedeli di tutte le religioni. Tempo di capire che sguardi diversi aggiungono luce e spessore, non frantumano ma accrescono la comprensione, che logiche diverse non disarmano e dividono ma aiutano a capire la realtà e la vita nella sua splendida complessità.

Sì, sarebbe tempo, perché la parte sana della cultura ha superato la necessità di un tranquillo contemplare inesistenti monotone armonie universali e coerenze totalizzanti più o meno rivelate. Le scienze più esatte si sono denudate mostrando inattese impotenze, Goedel ha saputo sublimare la matematica e la logica mostrando che nessun sistema logico sa essere coerente a meno che accetti un campo limitato di applicazione, e non sa essere completo a meno di accettare incoerenze: non è solo gioco di parole la proposizione “questa stessa proposizione è falsa”, che non ammette giudizio di verità; è solo un esempio di una ormai chiaramente dimostrata caratteristica di ogni sistema formale: le sue regole possono essere chiare e coerenti solo a patto che non pretendano di applicarsi fuori dell’ambito previsto. La logica del vero e del falso non si può applicare per discutere di verità. La geometria euclidea non si può applicare in un universo dove nulla è piatto. La fisica di Galileo non si può applicare quando le velocità si avvicinano a quelle della luce. E le leggi della fisica non si applicano all’anima. Ma si possono costruire logiche che trattano di verità − di criteri di verità − senza pretendere di aver da dire sulla verità di specifiche affermazioni, si possono costruire geometrie nelle quali le rette parallele non hanno senso ma che sanno descrivere universi curvi, si possono enunciare e dimostrare teorie della relatività che analizzano la fisica dalle parti della velocità della luce, e ridisegnano spazio e tempo e l’infinità stessa dell’universo. E sempre con coerenza e rigore, affiancando senza stridore ognuno di questi sistemi agli altri, benché ognuno ammetta al suo interno regole innegabili, ma che non si applicano negli altri, e neghi al suo interno applicabilità a principi fondamentali degli altri.

E si possono costruire sguardi che sappiano esplorare l’anima, con strumenti che in fisica non servono e rinunciando alle leggi fisiche che sull’anima non sanno dir nulla, senza imporre la causalità fisica fuori dei suoi confini ma senza rubare alla fisica tutto ciò che cambia e vive, senza cercare letture meccaniciste dei sogni e dell’amore ma senza rinchiudere aspirazioni, passioni, e forze e voli dell’anima in una caverna delle idee, in un limbo di verità rivelate, in un etere mistico che la ragione non può raggiungere.

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Ci si potrebbe chiedere perché sia così difficile superare il blocco che il concetto stesso di limite impone. Almeno due fattori giocano un ruolo importante: in primo luogo metter le braghe al mondo è comodo, il limite semplifica, banalizza, riduce l’angoscia; ma in aggiunta − e questo è un fattore più sottile e subdolo − il limite contesta l’evoluzione, cristallizza, sottolinea l’antitesi tra preservazione e cambiamento, tra coerenza e sviluppo, genera e sostiene l’orrore del nuovo e del «diverso».

Quando il professore era giovane e marxista (ora «giovane» non può più vantarsi di esserlo e «marxista» non c’è più da vantarsi di esserlo) voleva scrivere un libro (eh sì, prima o poi doveva succedere) sul limite. Sulla cultura del limite. Sul dare nome alle cose per imbozzolarle separarle disarmarle.

Come ogni organismo, anche l’organizzazione sociale si regge evolvendo e mutando rapporti e relazioni al suo interno e con l’esterno. La salute e la adeguatezza di un organismo sono legate alla coerenza tra le dinamiche dei sottosistemi che lo compongono e quelle complessive dell’organismo, le forze che lo muovono. La vita si basa sulla contemporanea presenza di forze e meccanismi che tendono a consolidare e riprodurre l’organizzazione esistente, e forze e processi che spingono a interagire con l’esterno, lasciandosi modificare, evolvere guidando questo cambiamento. E dunque il confronto, anche acceso tra componenti della società che − generalmente a causa di una loro condizione di privilegio − agiscono per conservare immutato l’equilibrio delle condizioni sociali politiche economiche, e componenti che − in genere mosse dalle loro condizioni di svantaggio (o talora da forze ideali) − spingono per cambiare, non è presumibilmente segno di sofferenza sociale ma di vitalità. Peraltro questa è probabilmente la maggior carenza scientifica, e limite ideologico, del materialismo storico, dell’analisi dei modi di produzione antagonistici, del disegno stesso di una società senza classi non antagonista.

E’ pur vero però che, essendo le classi e i gruppi dominanti «automaticamente» spinti alla conservazione dell’assetto sociopolitico momentaneo, essi grandemente si giovano (in realtà l’assetto si giova) di una diffusa paura e avversione nei confronti del cambiamento, inteso come limite, negazione, distruzione, e pertanto la cultura dominante tende a imperniarsi fortemente sul concetto di limite, separazione diversità, come baluardo in difesa dell’esistente (entità, regole, rapporti, prospettive).

La solidità di un sistema sociale (in particolare un sistema antagonistico, non egualitario) si fonda e si misura sulla base della forza con cui il limite, la paura del diverso e dell’emarginazione, l’aspirazione all’omologazione, si impongono e radicano profondamente nel pensare comune.

Ma l’incapacità di vedere il limite come punto di incontro-passaggio-comunicazione − e non separazione − di vedere il cambiamento come evoluzione − non diversità negazione − preclude ogni seria analisi della vita come processo e − qui è ormai ora di sputare il rospo − ancor più dell’anima, per quanto di essa si può pensare di esplorare, conoscere, analizzare, comprendere.

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Talamo e ipotalamo

Anteriormente al mesencefalo si trovano due strutture fondamentali: l’ipotalamo, il centro più alto di coordinamento delle informazioni viscerali e vegetative, e il talamo, ultima stazione per tutti i segnali in ingresso alla corteccia cerebrale.

L’ipotalamo è incaricato di mantenere l’omeostasi, ovvero valori costanti di tutti i parametri vitali. La pressione sanguigna, la temperatura corporea, la glicemia, i livelli di ossigeno e anidride carbonica nel sangue, il rapporto acqua/elettroliti ecc., sono mantenuti e controllati coordinando tutte le risposte viscerali e vegetative. L’ipotalamo regola l’attività cardiaca, la funzione renale, la vasocostrizione e dilatazione nei vari distretti, l’attività gastroenterica, la sudorazione, e la funzione degli organi sessuali. La supervisione di tutte queste funzioni si esercita attraverso tre sistemi. Il primo sistema di controllo vegetativo è il sistema nervoso autonomo (ortosimpatico e parasimpatico), che innerva cuore vasi muscolature viscerali e ghiandole. Il secondo meccanismo di controllo delle funzioni vitali e vegetative è la produzione di ormoni, alcuni da parte dall’ipotalamo stesso, altri sotto il suo stretto controllo dall’ipofisi (una piccola ghiandola− pituitaria − situata sopra il tetto del faringe, subito sotto l’ipotalamo). Il terzo, fondamentale meccanismo di controllo è la generazione di segnali neuronali che si distribuiscono a molte strutture nervose del tronco encefalico e superiori, per richiedere la messa in atto di comportamenti volontari: negli organismi superiori infatti non è possibile mantenere l’equilibrio omeostatico, e quindi una sopravvivenza anche solo vegetativa, senza attuare comportamenti attivi, come la ricerca e assunzione di cibo e di acqua, i comportamenti volti a proteggersi dal caldo o dal freddo, i comportamenti sessuali e riproduttivi. Sarebbe forse opportuno soffermarsi a considerare questo aspetto: senza attività volontaria l’uomo non può sopravvivere, pur respirando normalmente e avendo cuore fegato reni e polmoni sani, a meno che lo si attacchi a macchine che lo nutrono e lo idratano, e lo si protegga da temperature estreme.

Sopra l’ipotalamo, una grossa struttura dalla forma di due globi affiancati − il talamo (si vede che un tempo non esistevano i materassi a due piazze) − costituisce l’ultima stazione di organizzazione e controllo dell’informazione che deve raggiungere la corteccia cerebrale. Il talamo svolge una essenziale funzione di elaborazione e di filtro sulle informazioni di passaggio. Se il talamo impedisce alle informazioni sensoriali di raggiungere la corteccia, quest’ultima funziona in modo completamente diverso, elaborando secondo ritmi propri in uno stato di alterata coscienza indipendente dalle informazioni sensoriali (sonno).

Corteccia cerebrale

La corteccia cerebrale costituisce la massa più grossa dell’encefalo dell’uomo: lo sviluppo della corteccia è ciò che distingue maggiormente l’encefalo umano da quello di altri animali − anche altri primati. In animali un po’ meno fantasiosi, la corteccia costituisce una piccola porzione dell’encefalo, quasi un accessorio, a suggerire che non sia proprio così indispensabile per permettere all’animale di reagire correttamente agli stimoli e comportarsi nella maniera più opportuna. Questo è il motivo per cui sorge il dubbio che vedere il cervello dell’uomo − e della donna, forse, in particolare... − solo come uno strumento per ottimizzare il comportamento, in una logica stimolo-risposta, sia un filino riduttivo e non permetta di cogliere e gustare le sue potenzialità e la sua stessa essenza.

La corteccia forma due emisferi caratterizzati, un po’ come il gheriglio della noce, da una superficie frastagliata ricca di sporgenze (giri corticali) separate da solchi. Negli animali inferiori, in realtà, è di gran lunga meno frastagliata e solcata. L’organizzazione della corteccia è simmetrica nei due emisferi, anche se molte funzioni superiori − nell’uomo − vengono svolte in modo asimmetrico dall’emisfero destro o sinistro.

Le informazioni arrivano alla corteccia principalmente attraverso il talamo; in genere le informazioni provenienti dalla parte sinistra del corpo raggiungono talamo e emisfero destro, e viceversa. Le varie aree della corteccia sono intensamente collegate da imponenti fasci di fibre assonali (materia bianca) che corrono in parte sulla superficie della corteccia e in parte in profondità. Le cortecce dei due emisferi sono strettamente collegate da una specie di arcata antero-posteriore di materia bianca (corpo calloso), costituito da un massiccio nastro di fibre assonali trasversali. Gli emisferi racchiudono una ampia massa di tessuto nervoso, collocata nella regione più bassa e centrale: una regione nella quale si alternano aree bianche di collegamento e regioni grigie di corpi neuronali con le loro intricate connessioni (gangli o nuclei della base).

Buona parte delle elaborazioni della corteccia viene inviata al cervelletto e ai gangli della base. Entrambe le strutture restituiscono la loro elaborazione alla corteccia, attraverso il talamo, anche se il cervelletto ha − come già visto sopra − anche sue vie di uscita dirette verso il tronco encefalico. La funzione di queste connessioni reciproche con cervelletto e gangli della base è importantissima e varrà discussa altrove.

Apprendimento

La maggior parte delle funzioni delle cellule sono svolte da proteine, grosse molecole che sono in grado di cambiare forma (più propriamente conformazione). Cambiando forma alcune proteine possono legare sostanze chimiche e avvicinarle in modo da favorire una precisa reazione chimica (queste proteine sono dette enzimi); altre possono spostare molecole o corpuscoli cellulari lungo filamenti, o far scorrere filamenti uno sull’altro producendo movimento; altre proteine possono essere inglobate nelle membrane della cellula, e attraversarla: cambiando forma possono trasferire o lasciar passare in modo regolato piccole molecole o elettroliti da una parte all’altra della membrana stessa. Cambiando conformazione le proteine controllano e regolano tutta l’attività chimica della cellula, producono movimento, definiscono la composizione della soluzione interna alla cellula e ai suoi organelli, e producono le attività elettriche della cellula (che si generano grazie allo spostamento attivo o al flusso passivo di ioni, carichi elettricamente, attraverso le membrane). A loro volta le proteine sono variamente regolate e modulate nello svolgimento delle loro funzioni, da parte del legame momentaneo (rapidamente reversibile) di ioni o piccole molecole specifiche, o da parte del campo elettrico, o ancora a seguito di modificazioni della loro struttura chimica (aggiungendo/togliendo cioè dei pezzi di molecola) da parte di altre proteine-enzima. La presenza stessa di ogni proteina, e quindi la funzione da essa svolta, può inoltre essere regolata controllando la sua sintesi a partire dal gene che codifica la proteina stessa. Queste tre modalità determinano rispettivamente la possibilità di una regolazione rapida e prontamente reversibile, oppure di media durata (secondi-minuti) o anche permanente.

Nelle cellule nervose, la risposta al neurotrasmettitore, l’elaborazione del segnale elettrico e la secrezione di trasmettitore alla terminazione possono essere regolate in mille modi influenzando l’attività delle proteine implicate. Anche la organizzazione funzionale e il numero stesso delle sinapsi possono essere modificati alterando l’attività di proteine. L’aspetto cruciale, nella cellula nervosa, è che uno dei più efficaci e versatili strumenti per modificare l’attività delle sue proteine è la sua stessa attività elettrica. Ne risulta che i neuroni modificano nel tempo molte delle loro proprietà, possono rafforzare o indebolire sinapsi, o addirittura riassorbirne o formarne di nuove, e tutto questo in funzione della loro attività, ovvero in ultima analisi in funzione della informazione che stanno elaborando. I circuiti nervosi nel loro complesso cambiano dunque la loro funzionalità e organizzazione, il loro modo di elaborare l’informazione, in funzione dell’informazione stessa che elaborano. Questa è la base cellulare della capacità dei circuiti nervosi − e del cervello in ultima analisi − di apprendere, e la base cellulare della memoria.

Tipicamente, una sinapsi si può rafforzare se viene stimolata in modo intenso e ripetitivo. La caratteristica fondamentale dei processi di apprendimento nel sistema nervoso è però la associatività: una sinapsi si rafforza, o in certi sistemi si indebolisce, quando viene più volte attivata in sincronia, o subito dopo, un’altra sinapsi vicina, con il risultato che il neurone impara a rispondere a uno solo dei due segnali con la stessa intensità con cui rispondeva al loro arrivo contemporaneo: quando due stimoli si mostrano molte volte associati su un neurone, esso impara a rispondere ad uno solo dei due come se ci fosse anche l’altro. E basta il riconoscimento di alcuni elementi di un insieme per far funzionare il cervello come se avesse riconosciuto tutto, basta riconoscere un viso per provare il piacere che abbiamo incontrato più volte con quella persona…

La “paleocortex” e il sistema limbico

Le porzioni più “antiche” della corteccia cerebrale, che si presentano per prime salendo nella scala evolutiva, sono incaricate di estrarre dalle informazioni sensoriali, viscerali e dolorifiche, segnali che richiedono una risposta comportamentale (potremmo dire in generale segnali rilevanti ai fini della sopravvivenza e del benessere), e di generare i segnali necessari a coordinare tale risposta. Sono cioè regioni nelle quali si elaborano gli aspetti più rudimentali della vita “emotiva” (dolore, piacere, benessere, malessere) e delle “forze motivazionali” che ne conseguono, in grado di produrre comportamenti attivi, non puramente riflessi, ma autonomi. Negli animali inferiori gli schemi per l’esecuzione di tali comportamenti − come la ricerca di cibo, la costruzione di una tana, il corteggiamento o l’attività sessuale − sono già in buona parte precablati nella rete nervosa sottocorticale, e costituiscono comportamenti istintivi. Il ruolo della corteccia è quindi quasi esclusivamente quello di valutare l’opportunità dei comportamenti istintivi, scegliendo eventualmente la risposta più adatta tra diverse possibilità, e scatenarli nella situazione e nel momento appropriato. Le strutture che costituiscono questa porzione della corteccia sono in stretta connessione con l’ipotalamo e con due centri nervosi che hanno funzione abbastanza precisa e marcata capacità di apprendimento: amigdala e nucleo accumbens.

L’amigdala è un nucleo nervoso a forma di mandorla, i cui neuroni sono incaricati di scaricare impulsi quando al sistema nervoso arrivano segnali indicativi di pericolo. L’amigdala non solo risponde a stimoli istintivamente associati a pericolo, ma apprende a riconoscere il pericolo associato ad altri segnali, sulla base dell’esperienza. La attivazione dell’amigdala a livelli crescenti scatena le reazioni viscerali, mimiche e comportamentali tipicamente associate a timore, paura e terrore.

Il nucleo accumbens è una porzione infero-laterale dei gangli della base, che riceve informazioni da molte regioni del sistema nervoso centrale, ed è incaricato di riconoscere la possibilità di soddisfare una esigenza fisiologica o di ottenere una gratificazione. Quando si presenta una tale possibilità i neuroni che la hanno riconosciuta si mettono a scaricare, agendo come potente sorgente di forza motivazionale per l’avvio di comportamenti adeguati all’ottenimento del risultato desiderato (e apparentemente realizzabile): possiamo chiamarli neuroni della anticipazione. Un’altra importante via che raggiunge il nucleo accumbens proviene da regioni del mesencefalo (VTA) che vengono attivate quando si verifica un evento positivo, si supera una condizione di bisogno carenza o disagio, o si raggiunge una situazione di benessere. Questa connessione neuronale è detta via della ricompensa («reward») e dà luogo ad una attivazione del nucleo accumbens che ha due funzioni diverse ed entrambe importanti: da un lato questa attività dell’accumbens sottolinea la situazione di piacere e gratificazione; d’altra parte questa attivazione ha il ruolo di addestrare specifici neuroni nell’accumbens stesso a scaricare in futuro quando si creerà una situazione che permetta di ottenere nuovamente questa gratificazione: addestra cioè nuovi neuroni dell’anticipazione. La capacità di molti farmaci attivi sul sistema nervoso, dalla nicotina alle anfetamine, dalla cocaina all’eroina, di attivare direttamente questa via della gratificazione, è il meccanismo fondamentale con il quale essi instaurano una condizione di dipendenza psicologica.

L’insieme di queste due strutture (amigdala e accumbens), di alcune altre vie di comunicazione, e delle porzioni della corteccia più antiche (nella zona più interna dell’encefalo, dove le cortecce dei due emisferi si fronteggiano) costituisce un sistema incaricato della elaborazione complessiva di emozioni e forze motivazionali, indicato come sistema limbico. Il nome stesso è suggestivo, quasi ad indicare la regione in cui le forze pulsionali profonde, bisogni fisiologici, dolore e piacere, raggiungono attraverso l’elaborazione emotiva la soglia della percezione consapevole − un “limbo” tra le bufere generate dai conflitti delle forze vitali e l’etereo ambito della elaborazione cognitiva cosciente.

Le specializzazioni della corteccia cerebrale

L’emisfero cerebrale è attraversato da un solco trasversale (solco centrale o fissura Silviana), a mezza testa, che separa la parte anteriore (lobo frontale) da quella centro-posteriore (lobi parietale temporale e occipitale). In vaga analogia con l’organizzazione del midollo, tutta la parte posteriore è implicata nella elaborazione delle informazioni sensoriali, in “ingresso” al cervello, mentre tutta la parte anteriore è implicata nella elaborazione del comportamento (“uscita”).

Più in particolare, la porzione posteriore della corteccia − lobo occipitale - è incaricata della elaborazione della informazione visiva. L’informazione uditiva è elaborata nel lobo temporale. L’informazione gustativa è elaborata nella regione interna del lobo temporale e quella olfattiva più anteriormente. Subito dietro il solco centrale, una striscia di corteccia del lobo parietale elabora la informazione somatosensoriale − informazioni tattili e cutanee in genere e informazioni propriocettive dalle articolazioni e dai muscoli, che permettono di conoscere la posizione di ogni segmento corporeo. Questa striscia di corteccia è organizzata in modo topologico: l’informazione proveniente dai piedi raggiunge le porzioni più centrali (in alto al centro della testa) e quella da livelli più alti raggiunge regioni via via più laterali e basse, disegnando una specie di omuncolo capovolto sulla superficie della corteccia, un mostriciattolo deformato con gambette corte e piccole, torace asfittico, mani enormi, faccione e una lingua spropositata, a causa del fatto che la quantità di corteccia dedicata ad ogni regione del corpo dipende dalla quantità e importanza dell’informazione che da tale regione perviene. L’omuncolo sensoriale nella corteccia parietale destra rappresenta la metà sinistra del corpo, e viceversa.

Davanti al solco centrale, affacciato all’omuncolo sensoriale, si può disegnare sulla superficie della corteccia frontale un omuncolo motorio, anch’esso deforme in modo analogo: questa striscia della corteccia frontale costituisce l’area motoria primaria, incaricata del controllo volontario della muscolatura scheletrica della parte controlaterale del corpo. Nell’area motoria molti neuroni (neuroni piramidali) mandano segnali diretti fino ai neuroni localizzati nella materia grigia anteriore del midollo spinale − motoneuroni − che attivano direttamente i muscoli scheletrici.

Oltre a queste regioni con funzioni sensoriali e motorie la corteccia comprende la già citata porzione limbica, più “antica”, incaricata di elaborare informazioni con rilevanza “emotiva”.

La corteccia associativa

Le regioni così descritte − corteccia limbica, area visiva primaria, e altre aree sensoriali primarie, e area motoria primaria − esauriscono buona parte della descrizione della corteccia di un topo, ma rendono conto solo di una parte minoritaria della corteccia umana. Ogni regione primaria è attorniata da corteccia “associativa”, che elabora in mille modi diversi l’informazione presente nella corrispondente area primaria. Ancor più sviluppate, estese ed importanti nell’uomo sono le regioni collocate tra queste aree associative, che mettono in relazione le informazioni che provengono da diverse modalità sensoriali (aree associative multimodali).

Nell’uomo, la maggior parte della corteccia è occupata da aree associative, e in particolare multimodali. Questo è vero in particolar modo per il lobo frontale, enormemente sviluppato nell’uomo rispetto a qualunque altro animale, e capace non solo di più sofisticata programmazione dei movimenti, ma della elaborazione di un comportamento complesso, regolato su tempi, progetti e programmi diversi, capace di sospensione, rinvio e ripresa dei vari comportamenti e progetti, di mediazione e di conciliazione. Il ruolo delle regioni associative multimodali non è comunque meno rilevante nelle regioni parietali, occipitali e temporali, dove esse sostengono la maggior parte delle attività cognitive, mnemoniche, logiche e linguistiche. Più in generale, come si vedrà, il grado stesso di vigilanza e di coscienza nell’uomo è funzione della intensità della attività neuronale nelle aree associative multimodali.

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