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Fisiologia dell’anima - o, se preferisci, - neuroni & anima
Riccardo Fesce - tutti i diritti riservati (editori e agenti interessati, inviare una mail)
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XI

RACCONTARE IL MONDO − Spazio e Tempo

Neurologicamente siamo esseri visivi.

E buona parte dei circuiti neuronali lavorano secondo quel paradigma: estrarre informazioni, relazioni, interpretazioni da miriadi di dati esaminati contemporaneamente, riconoscendo schemi, ordini, posizioni, gerarchie... lo SPAZIO.

E non è un caso che ciò che sappiamo far meglio è estrarre, da mille dati, elementi e relazioni: vicino-lontano davanti-dietro unità-molteplicità e ordine, regolarità, e rilevanza.

Persino i numeri, gran parte di noi li vedono lì allineati, 1 a sinistra, 10 un po’ più a destra, un miliardo quasi fuori dal cervello, in fondo a destra, e mille miliardi, e infinito, laggiù che non si vedono neppure più.

In realtà questo modo di ordinare le cose è quello che ci riesce più congeniale.

E finisce che lo applichiamo anche al tempo, quello che nel cervello è inizialmente solo un cogliere relazioni di prima e dopo, un avvertire l’unità di una sequenza, un misurare intervalli attraverso il tempo necessario a un gesto, a una parola, milleuno, milledue, milletre...

Ci costruiamo un tempo ordinato e infinito come lo spazio, un tempo che non esiste nella nostra rappresentazione di noi e della realtà, neppure nella nostra memoria, una cronologia che quando ci serve dobbiamo ricostruire a fatica, mappando gli eventi sulle coordinate appropriate: la data; questo sì, al terzo anno di liceo; quello quando mio figlio aveva due anni; quell’altro l’anno che l’Inter ha vinto lo scudetto (questo solo per chi ha una certa età e la memoria lunga).

Curioso, nello stesso modo ordiniamo anche l’intensità dei nostri momenti, delle esperienze, delle emozioni, e questo è più importante di quello, e chi ci sta a cuore ci sembra più vicino.

Allo stesso modo ordiniamo la profondità, lungo un asse che va da ciò che ci pare chiaro là fuori, e oggettivo e reale e materiale, a ciò che è più nostro e personale, fino a ciò che percepiamo a fatica in noi, fino a ciò che addirittura pare così profondamente sepolto nell’animo da poterlo solo occasionalmente avvertire in modo vago e confuso...

Curiosamente, talvolta gli assi si capovolgono e neppure ci turba tanto: nel mito della caverna noi là dentro, al buio, le cose fuori, ma solo ombre di una realtà più vera e lontana, dalla materia alla verità sempre più lontano da noi; per Kant la realtà là fuori, i sensi per avvertirla, i modi dell’intelletto di leggerla, e la verità più pura dentro di noi...

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Relatività

Questo lavorio per inquadrare l’esperienza lungo assi, in cornici spaziali, è faticoso.

Nessun dato ci serve così come appare, dobbiamo rielaborarlo e “collocarlo” lungo gli assi dello spazio, del tempo, della rilevanza affettiva, del bene e del male...

Forse per questo la teoria della relatività ristretta è più facile della relatività generale, e soprattutto è più popolare − dell’altra non parla mai nessuno.

Perché in fondo pare si tratti semplicemente di accettare che le grandezze e il tempo sono relativi, e che in un ambito un po’ fantasioso come quello di velocità vicine a quella della luce succedono cose strane, il tempo si stiracchia e si può rivoltare come un guanto, e le cose sembrano più piccole (in realtà lo sono, ma è difficile avvertire la differenza).

Insomma, che ci vuole? vien quasi da dire, che bisogno c’era di Einstein? Un campanile, da lontano, è alto solo quanto un dito. E il tempo non possiamo che avvertirlo sulla base delle nostre attività neuronali, e si dilata e contrae e corre avanti, indietro, salta, schiavo del pensiero che svolge e riavvolge la vita, vola e si trattiene; a dirci che il tempo è una bella linea diritta e continua, che corre regolare, sono solo gli orologi, di cui abbiamo imparato a fidarci, ma l’anima, in fondo, è più contenta della relatività che dei cronometri atomici.

Insomma, uno fa fatica a capire; poi brancolando riesce a focalizzare gli aspetti fondamentali e gli resta una strana sensazione che si sia fatto un gran giro per dimostrare qualcosa che nessuno di noi avrebbe saputo formalizzare matematicamente, ma che ad ognuno di noi è assolutamente chiaro, perché lo si avverte dentro: tempo e spazio sono relativi e l’anima ci guazza. Einstein arriva e dimostra che vale anche per la Fisica, che sembrava invece così rigida e inflessibile e sicura di sé... Ehi, Albert, benvenuto tra noi, e buon per la Fisica!

La relatività generale invece ci scombussola. A parte che bisogna frizionarsi mica male le meningi per capire. Che l’infinito sia limitato pare più un’intuizione mistica, e piuttosto fastidiosa, che non scienza. E i buchi neri sembrano brutti sogni. Son quasi più simpatici gli orchi.

Chi sa seguire tutta la matematica arriva in fondo e dice “perbacco! è vero!” e si sconvolge, a patto che, pur sapendo matematizzare, gli sia rimasta un filo di anima. Gli altri però tendono a dire “sarà! e, comunque, con ciò? non mi cambia granché la vita”.

Insomma, se uno si lascia convincere dalla relatività generale ne esce un po’ frustrato, perché deve accettare che per quanto infinito sia, questo universo è limitato, una gabbia da cui non si può sfuggire (e nota che anche se non ti sei mai allontanato da casa tua alla periferia di Casalpusterlengo ti secca comunque che ti dicano che da qualche parte non ci puoi andare); e deve rassegnarsi all’idea che se in un buco nero c’è un altro universo intero (perché i buchi neri non sono vuoti, anzi!) non lo potremo mai neppure vedere, a meno di andarci vicino e farci risucchiare dentro per sempre

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Geni o ambiente

Dimensioni, misure e direzioni. In realtà in biologia le direzioni sono essenziali.

Basta pensare alla complessità dello sviluppo di un organismo.

La soluzione del genetista dilettante: “è semplice, è tutto scritto nel DNA”.

Scritto nel DNA? ma mi faccia il piacere! allora tanto vale sia scritto nel destino. Non spiega nulla lo stesso, ma almeno non richiede risme di carta, né dischetti, né chilometri di molecole. Ed è molto più romantico.

Sì, perché in un organismo vi sono migliaia di miliardi di cellule, tutte con lo stesso DNA, e diverse tra loro quanto può esserlo un moscerino da un ippopotamo. E allora, assumiamo pure che nella biblioteca del nucleo ci siano tutte le ricette per fare ognuna di queste diverse cellule; poi che succede? ogni volta che una cellula dell’embrione si divide le due cellule figlie pescano un numerino per sapere quale ricetta devono usare e quale sarà il loro futuro, il loro destino?

Insomma, prendi la cellula uovo, fecondata. Questa si divide in due, poi in quattro, in otto... chi decide chi di queste cellule dovrà occuparsi di contribuire a formare la placenta e chi farà l’embrione vero e proprio? e di queste ultime, quando saranno anche loro un certo numero, chi deciderà chi si occupa del sopra e chi del sotto (noi raffinati diremmo chi definisce l’asse caudo-craniale o rostro-caudale)? e chi si troverà davanti e chi dietro (per i raffinati, chi definisce l’asse dorso-ventrale)? e a questo punto chi avvisa le cellule che si sono venute a trovare a destra o a sinistra (anche per i raffinati, resta destra e sinistra), dato che di cuore, e di fegato, ce ne basta uno?

Sarà patologico porsi queste domande, anziché dirsi “mah! misteri della vita...”

Ma la risposta c’è: i gradienti. “Ecco, comincia con le parole che sa solo lui”, si alzano già tutti, chi ha un appuntamento urgente, chi ricorda di aver la pasta sul fuoco, chi ha un improvviso capogiro e deve stendersi un attimo...

No, è semplice; già nella cellula uovo, grazie alla distribuzione asimmetrica di nucleo, organelli cellulari e microtubuli che costituiscono ciò che viene comunemente chiamato “citoscheletro”, si genera una graduale diversità di concentrazione (gradiente) di alcune sostanze tra un capo e l’altro della cellula. Queste sostanze verranno così a trovarsi in concentrazione diversa nelle due cellule figlie e potranno determinarne il diverso destino. Nell’embrione dei vertebrati, per esempio, si riconosce già in stadi primordiali un gradiente di concentrazione di acido retinoico lungo l’asse caudo-craniale: poiché molti geni hanno regioni di controllo che sono sensibili all’acido retinoico, questo non solo definisce il principale asse di sviluppo, ma determina differenze nella attivazione dei vari geni in cellule poste in posizioni diverse lungo tale asse. E’ facile immaginare come l’attivazione di diversi geni possa determinare la sintesi differenziale di proteine, che a loro volta possono accendere o spegnere altri geni, e così via, amplificando all’infinito una lievissima differenza e traducendola in quadri ben diversi di attivazione dei geni, e di produzione delle proteine, da parte delle diverse cellule, con il risultato di produrre cellule, tessuti e organi molto diversi nei vari punti dell’organismo.

Qui non vale la pena di entrare nel dettaglio di questi meccanismi. Ciò che però deve balzare all’occhio è l’impressionante crescita combinatoria delle possibili differenze, generate non solo e non tanto dall’enorme numero di geni che si possono accendere e spegnere in ogni cellula (tra l’altro, il numero di geni nel DNA umano non è poi così impressionante, presumibilmente attorno a 30000), ma dall’ancor più enorme numero di segnali presenti nel DNA, che permettono per ogni gene una regolazione fine della sua espressione (produzione della proteina che il gene codifica) in risposta alla presenza e concentrazione di molte altre proteine, di fattori solubili e di segnali che raggiungono la cellula dall’esterno.

Non occorre quindi che per ogni cellula che dovrà comporre l’organismo adulto stia scritto da qualche parte quali geni dovrà attivare e in che misura − non basterebbero mille cromosomi, e ne abbiamo solo 48 − o che per ognuno dei 300 miliardi di cellule nervose stia scritto con quali centinaia di migliaia di altri neuroni debba fare contatto sinaptico, e in quale punto del suo complicato albero di prolungamenti cellulari (dendriti) esso debba ricevere il contatto da ognuno dei centomila neuroni che gli devono mandare il proprio segnale.

E’ un affascinante esempio di interazione tra ciò che sta scritto − nel DNA − e le piccole, innumerevoli differenze − alcune graduali, alcune tanto sensibili da costituire una biforcazione netta, sì o no − nell’ambiente biochimico e cellulare circostante, che moltiplicano esponenzialmente le possibilità di scelta, ma al tempo stesso guidano uno sviluppo ordinato proprio perché non sono differenze casuali, ma a loro volta generate dai passaggi precedenti dello sviluppo.

Una interazione tra informazione scritta e sistema di lettura, che genera cambiamenti nel sistema di lettura stesso. Il sistema di lettura è un insieme di proteine, e la lettura del DNA produce un insieme di proteine diverse. Dalla stessa informazione scritta si estraggono nuove indicazioni, per generare lettori ancora diversi, e così via per mille e mille volte, fino a produrre nel mio cranio un neurone che sembra identico a quello di un topo e nulla invece sembra avere in comune con un mio globulo bianco, che pure contiene lo stesso mio sacro, unico, personale e irriproducibile DNA.

Questa è pura, banale biologia. Eppure vien da ripensare alla diatriba psicologica tra influenze genetiche e ambientali nello sviluppo dell’individuo. A chi può anche solo lontanamente immaginare che stia tutto scritto nei geni. A chi, a fronte della osservazione che due gemelli cresciuti insieme possono avere diverse storie e manie, ha bisogno di un destino scritto nelle stelle o nell’anima o in un qualche demone che − nascosto o ben visibile, aiutato o contrastato dal mondo e dalla sorte − ha un suo disegno precedente da perseguire e attuare. Come se lo straordinario, complesso, versatile, sensibile e volubile sistema di lettura che il corpo il cervello e la mente costituiscono − nel loro formarsi e mutare − non contasse nulla, e avesse bisogno di un aiuto per leggere l’informazione del DNA in modo originale, per crescere e mutare, per rileggere ogni giorno, ogni istante, non solo più il DNA ma anche tutta la propria storia in modo sempre nuovo, per estrarre da una cellula uovo, che in fondo contiene sì istruzioni precise, ma tutto sommato piuttosto vaghe rispetto alle scelte della vita, un proprio destino personale.

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La pelle dell’anima

Gradienti e asimmetrie sono fondamentali nel disegnare le linee di sviluppo dell’organismo.

E la prima e fondamentale distinzione tra le cellule è tra cellule epiteliali e non. Sì, perché quelle epiteliali sono asimmetriche, polarizzate.

Tutto l’organismo è polarizzato, non solo e non tanto dalla testa ai piedi, ma da fuori a dentro, e dalle sensazioni alle risposte, e dal mondo esterno al profondo dell’anima. E a segnare le polarizzazioni, e le divisioni tra ambienti diversi, cellule epiteliali: pelle mucose e neuroni.

La pelle riveste il corpo.

Mucose lo rivestono rispetto a cavità cosiddette “interne”.

Endoteli separano i vasi dagli spazi dei tessuti e degli organi.

E infine le altre cellule polarizzate, epiteliali anche loro, le cellule nervose, che derivano, guarda un po’ che parola, dall’ectoderma, dallo strato più esterno dell’embrione, che lo separa − o unisce? − al mondo.

Sì, a un certo punto l’ectoderma forma un solco, che si approfonda e poi si chiude in un tubo (il tubo neurale), formato da cellule epiteliali, ormai staccate dal rivestimento esterno dell’embrione. Sono le cellule che diventeranno neuroni, e sembrano racchiudere qualcosa, e separare l’organismo da qualcosa, che resta dentro il tubo. E’ facile lasciarsi incantare. Scoprendo che così origina il sistema nervoso, e che un sottile tubo continua a percorrere il midollo spinale anche nell’adulto, generando piccole tasche anche nel cranio − i ventricoli cerebrali − in mezzo al cervello, vien da immaginare che il liquido che sta lì dentro debba in qualche modo contenere gli spiriti vitali, e forse l’anima. In effetti, nella elaborazione pseudoscientifica degli albori delle neuroscienze proprio questo sistema di liquidi interni al cervello erano ipotizzati come sede degli “spiriti animali”, ovvero come sede dello “spirito”, in opposizione alle precedenti interpretazioni − infantili e ascientifiche! − di spiriti animali che risiedano nel cuore e si diffondano all’organismo attraverso il sangue.

I tessuti epiteliali sono polarizzati perché separano due ambienti, compartimenti diversi che hanno composizioni e esigenze di scambio diverse. Il tessuto nervoso è anch’esso polarizzato, appunto come tutti i tessuti epiteliali. Le cellule nervose stesse sono polarizzate... ma non è che allora davvero il sistema nervoso sia una pelle, che separa l’organismo da qualcos’altro − dallo spirito forse? − contenuto appunto nel tubo neurale...

In realtà la polarizzazione delle cellule nervose ha chiaramente una diversa funzione. Tutte le cellule nervose hanno una porzione che riceve segnali − segnali chimici oppure stimoli che arrivano dall’esterno in forma di onde elettromagnetiche (luce, calore), di vibrazioni (suono) o di molecole odoranti o dotate di sapore. Una porzione che riceve segnali, dunque, poi una grossa parte della cellula che li somma li traduce li elabora, e infine una parte che conduce altrove il segnale che risulta dall’elaborazione e lo trasmette ad altre cellule nervose.

Una evidente polarizzazione input-output, polarizzazione stimolo-risposta.

Questo è cosi chiaro, nella organizzazione del sistema nervoso, che ne è derivato il paradigma interpretativo più classico e più diffuso del sistema nervoso − ancora attuale − che lo vede come sistema la cui funzione essenziale è generare risposte adeguate agli stimoli.

In realtà la complessità della rete nervosa è straordinaria, e anche volendola vedere come semplice sistema di produzione di risposta a uno stimolo, essa avvia una tale ricchezza e multiforme attività di regolazione modulazione e controllo da CREARE una vera e propria dimensione ASTRATTA, concettuale logica cognitiva, come effetto collaterale di questa elaborazione.

Ma in questa prospettiva emerge una visione un po’ diversa della polarizzazione del sistema nervoso, e di questo concetto “cutaneo” del sistema nervoso: sì, una pelle, ma una pelle che separa l’organismo materiale dalla sfera della elaborazione conoscitiva, logica, concettuale, e peraltro anche emotiva e affettiva.

Pelle sì, ma pelle dell’anima!

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Ho sentito dire che “La scienza è il sogno di vincere il tempo”. Intendendo forse che attraverso la genetica, la biotecnologia, o chissà quale altra diavoleria − la pietra filosofale? − saremo capaci di prolungare la vita dell’uomo...

Ma non posso trovarmi d’accordo: il sogno è sempre e comunque l’infinito, non spostare il confine; è la profondità, non la lunghezza; è l’innumerevole moltiplicazione delle dimensioni, degli sguardi, delle interpretazioni, della comprensione; è l’ARMONIA, non una conoscenza, un centimetro, un anno in più della vita media.

Nell’elaborazione sensoriale già le parti della corteccia che se ne occupano specificamente non si accontentano di registrare le sensazioni, ma vi cercano relazioni, regole, criteri logiche, quasi si dovesse sempre andare oltre cercando qualcos’altro.

E che dire della molteplicità del pensiero, che continuamente alterna e intreccia un filo sequenziale con sintesi istantanee − immagini, evocazioni, ricordi; spiegazioni e intuizioni; logica e evocazione visibile, palpabile, a trasformare dati, oggetti, fatti, sequenze di eventi in una narrazione che sfugge alle troppo limitate dimensioni di spazio e tempo, inoltrandosi nei territori del possibile, dell’emozione, del desiderio, dell’impegno, della passione, della fantasia.

Così pure il linguaggio, che sa giocare con le parole tenendole vive, attribuendo significato, colore, suono, valore affettivo, legami e richiami, sottintesi, riferimenti culturali, politici, storici, ideali, sempre più ricchi, cangianti e capaci di cogliere, rappresentare, far vivere, cantare la realtà e la sua musica in tutte le sue innumerevoli dimensioni.

In fondo, in tutte queste funzioni c’è già tutto il complesso, affascinante rapporto che l’anima crea tra coscienza e affetti, logos e passione, buono bello e giusto.

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Lo spazio nasce dall’analisi dei rapporti tra elementi contemporaneamente presenti nell’esperito. Così nasce nel cervello, in quella regione che riconosce le relazioni di unicità/molteplicità, distanza, periodicità e ordine, numerosità e cardinalità, unità e collettività, gerarchie e ordinalità, direzione, simmetria...

Il paradosso dello spazio − ciò che resta quando non c’è più nulla − si volatilizza. Lo spazio non è più un contenitore ma una rete di relazioni possibili, non un’entità ontologica, esistente in sé materialmente, ma un’entità logica, esistente in modo non meno reale nella logica delle relazioni spaziali che il nostro cervello elabora.

Queste relazioni esistono anche senza contenuto (come nell’intelletto kantiano) e sono “nei sensi” (in senso lato) come nell’anticriticismo herderiano, ma senza bisogno che siano prima nel dato reale sperimentabile: è qui che la vince Kant, e la sua poesia. Le relazioni sono nell’organizzazione neuronale capace di riconoscerle. E che spesso le ritrova anche dove non sono − basta pensare come è facile ingannare l’occhio. L’aspetto forse più curioso è che un po’ di ragione ce l’ha anche Herder − non posso prendermela troppo con un materialista: se una relazione non esiste nel dato reale sperimentabile, difficilmente troveremo un organismo con un cervello che ha prodotto e preservato organizzazioni circuitali neuronali adatte a riconoscere tale relazione: sarebbero neuroni sprecati, e dopo tanti millenni stupirebbe che l’evoluzione non avesse privilegiato organismi che di quei neuroni facciano uso migliore...

Per quanto stupida possa sembrare quest’ultima osservazione, vale la pena di notare che un intelletto kantiano che trascenda il dato sperimentale imponendo relazioni e categorie a priori che nella realtà non hanno base materiale non è il massimo della furbizia, e viceversa un sistema sensoriale capace di riconoscere a posteriori solo relazioni che esistono prima nella realtà sperimentabile deve comunque essere predisposto a riconoscerle... È un po’ come l’uovo e la gallina, finché si considera da un lato un intelletto immateriale e dall’altro la realtà materiale. Se nessuno li ha messi d’accordo prima siamo destinati a interpretare la realtà arbitrariamente, senza capirne nulla davvero. Altrimenti, chi li ha messi d’accordo?

E allora è divertente considerare come la spinta evolutiva, che necessariamente favorirà l’organismo capace di riconoscere una relazione oggettivamente esistente nella realtà, e rilevante per la sopravvivenza, possa dar conto di come e perché i circuiti neuronali si siano evoluti in modo da elaborare la realtà attraverso relazioni e schemi coerenti con la struttura e l’organizzazione oggettiva della realtà stessa. Ecco dunque chi ha messo d’accordo realtà ed intelletto. Senza bisogno di qualcuno che sappia valicare il confine tra materia e spirito.

In fondo, come criterio di verità, quello appena enunciato non è poi tanto male. Se dopo miliardi di anni, in qualità di più avanzata punta dell’evoluzione, riconosciamo nella realtà oggetti, relazioni, regole e leggi, possiamo essere ragionevolmente sicuri che non sbagliamo di molto. A patto di avvertire chiaramente, però, dove sta il limite, non da poco, di questo approccio intellettuale: tutto quello che non ha rilevanza per la sopravvivenza non è coperto da garanzia!

Se uno vede il sole sorgere al mattino e tramontare la sera, e deduce che giri intorno alla Terra, vive bene uguale. E un cervello capace di percepire l’astrofisica senza calcoli e mediazioni non serve a nulla (per la sopravvivenza, intendo, senza offesa).

Anche quest’ultima pare una osservazione stupida, ma a pensarci bene forse spiega perché dello spazio e del tempo non abbiamo mai capito nulla, né dell’infinito, o della materia e dell’energia, e perché quando Einstein ci ha stravolto tutto, mostrando che spazio e tempo non hanno nulla di assoluto, l’infinito è curvo e limitato per quanto possa essere infinito, e la materia non è altro che energia rappresa, ci sia stato così difficile crederlo e ci sia comunque impossibile capirlo.

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Ma se lo SPAZIO sta nei rapporti, nelle relazioni che noi sappiamo riconoscere tra elementi che si presentano contemporaneamente alla nostra osservazione, e ci permette di manipolare relazioni astratte − molteplicità, ordine, gerarchia, numeri − che apparentemente poco hanno a vedere con lo spazio, il TEMPO dove sta?

È anche il tempo una relazione, un modo di interpretare la realtà da parte del cervello più che una realtà esso stesso, una entità preesistente?

Per molti versi sì. In senso relativistico il tempo è solo una relazione di contemporaneità o precedenza che risulta diversa e relativa, in funzione della posizione, della velocità e soprattutto delle accelerazioni dei sistemi interessati.

Ma anche per noi, nel nostro cervello, il tempo è solo una generalizzazione di relazioni che sappiamo riconoscere. Il tempo nasce dal riconoscimento di successioni (prima, dopo, intervalli), e per molti versi dalla applicazione della concezione spaziale − che ci è così congeniale − all’ordine temporale (sequenza); e nella sua misurabilità il tempo nasce dalla consapevolezza e temporizzazione dei movimenti: basti pensare come facciamo ad aspettare 10 secondi, “uno... due... tre... ...”, abbiamo imparato a contare ad alta voce mettendoci circa un secondo per ogni numero...

Forse bisognerebbe accordarsi sul fatto che il tempo sono due cose diverse:

  • una relazione prima−dopo, che è necessaria per definire − per l’esistenza stessa − di un evento, di un fatto, un episodio, un processo.
  • un allineamento − non necessario − in una sequenza ordinata, non arbitraria.

E allora ci si accorge che il NOSTRO tempo, il tempo della nostra vita, il tempo che pare dimensione fondamentale della nostra storia, è il tempo della memoria. E la memoria non ha questo secondo tipo di tempo, la sequenza allineata: le va costruito e sovrapposto di volta in volta. La memoria (episodica) è cineteca di innumerevoli spezzoni − certo, continui in sé, ma separati uno dall’altro − e la contiguità è generata dalla prospettiva cognitiva, emotiva, operativa, arbitrariamente e volubilmente, senza rispetto per lo spazio né il tempo come dimensioni fisiche.

Ogni evento si colloca sull’asse del tempo per associazione con una data, una fase della nostra vita, un altro evento rilevante. Ma non c’è la sequenza intera, la successione, del tempo della nostra vita − interiore, affettiva, lavorativa, sociale, politica. Va ricostruito con un’operazione − un po’ maniacale − di riordino. Operazione che persone molto ordinate fanno forse ogni sera, riordinando eventi e ricordi dopo aver lavato e riposto in ordine i piatti, e spolverato e rimesso a posto i libri a scaletta − dal più piccolo al più alto − oppure per titolo, o per autore, o per anno di pubblicazione.

Chi come me è disordinato può capire però lo smarrimento che prende quando uno, guardando indietro − guardandosi indietro − vede solo un gran disordine di ricordi, qui vicini quelli più atroci o più belli, magari indietro nel tempo ma che premono per essere ricordati, e solo là sullo sfondo eventi magari recenti, che non chiamano e si avviano ad esser dimenticati, e buchi e voragini che solo a gran fatica si possono colmare richiamando con ossessiva minuzia labili tracce di eventi che non ci è interessato mai ricordare.

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Come la memoria, anche la PAROLA, astrazione dell’entità, dell’evento, delle sue relazioni, partecipa di questa libertà dalle dimensioni fisiche, al punto che rappresenta la quintessenza della negazione dello spazio, del tempo, della causalità, della necessità, grazie alla sua capacità di avvicinare ciò che è lontano, di evocare istantaneamente immagini e ricordi di momenti remoti e vicini nel passato, nel presente e nel futuro, di affermare legami assurdi e trascurare relazioni innegabili... Eppure, nello stesso momento la parola è lo strumento più potente per creare ed affermare spazio tempo causalità necessità, più o meno reali, oggettive, vere, forti, arbitrarie, folli.

Mio figlio, interrogato, sostiene che il tempo è una convenzione per regolare la società, che ti vincola, ti limita. E’ un problema di sincronia tra le persone. E’ l’angoscia del domani. “E’ un modo di combattere l’entropia, di fare ordine...”

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La nostalgia di ciò che avrebbe potuto essere − che NOI avremmo potuto essere − ci ruba il tempo che abbiamo vissuto, che viviamo, che vivremo. Obbliga a un oggi altrove e senza ritorno.

E allora, merde! Avanti per questa selva oscura. Il frastuono non può zittire la musica che − dentro − racconta comunque altri tempi e sogni e vite possibili. Verso l’infinito, e oltre!

Perché poi c’è il tempo della vita e dell’anima. Un tempo che si espande e contrae, evapora e svanisce o si ferma, esplode e lascia vuoto e languore (come quando l’aereo frettoloso insegue le vibrazioni, i rumori che getta davanti a sé, e corre fino a raggiungerli e superarli nel boato inaccettabilmente insensato del superamento del muro del suono). Oppure, danza pacato elegante ed armonioso. Mentre una cadenza tiranna e incoercibile, lungo un binario angusto e rigoroso, inflessibile, lo vuota e lo riempie, il tempo dell’anima, e lo combatte e lo ruba e lo restituisce, lo colora lo canta e lo annebbia e lo mette a tacere.

Talvolta hai l’impressione che l’anima sia squarciata da una voragine profonda − e qualcuno sa o crede di sapere chi s’è portato via la terra, la carne, l’amore (il tempo?) che manca, molti non ne hanno idea. Una voragine così profonda che agli altri non chiediamo neppure di provare a riempirla, ma solo tapparla in qualche maniera, mascherarne la bocca. E quanto meno sono adatti a farlo, quanto più grande e vuota resta la carie dell’anima, là sotto, tanto più ci attacchiamo e − amori fasulli assurdi e infelici − temiamo di perderli, e di dover nuovamente affrontare quel vuoto, quel nulla, quello sgomento, quel dolore.

Ma la voragine è forse proprio il tempo, quello perduto, rubato o gettato non fa differenza. E riempire non si può, o sostituire, no.

Ma se è vero che siamo fatti della materia dei sogni forse ritrovarlo sì, forse si può. E ritrovare i segni fuori di noi del nostro tempo vissuto e rubato, e il senso eterno assoluto di questo ininterrotto e faticoso ribollire, e gioire, e soffrire.

Forse più che voragini sono pezzi di noi che si sono fermati (e forse sappiamo irrevocabilmente, irreversibilmente, irrimediabilmente) in uno o nell’altro momento della nostra vita. Bloccati. Il loro tempo rimasto vuoto, e riempito in qualche modo di gioie affetti amicizie amori; musiche interrotte, che spezzoni di canzoni e ritornelli − pure cari e suggestivi − non sostituiscono né tantomeno sanno riavviare.

Tempi dell’anima, della nostra storia, come tanti fili, che ne percorrono tratti più o meno lunghi. Talora abbastanza lunghi. Talora proprio no.

Nostalgia, rimpianto, fili che si possono riannodare, oppure no. Simboli gelosi che non vogliono cedere il loro valore più grande. Condizionamenti impliciti che nessuna parola può sciogliere. Legami che negano al rimpianto di evaporare in anelito.

Tempi dolci e amari, esaltanti e sublimi, struggenti tracciano la nostra vita. Forse i vuoti più dolorosi sono dove si arrestano di colpo, in modo inatteso, invece di diradarsi e svaporare.

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Spazio e tempo. La loro intersezione − l’intuizione − da un lato; i loro percorsi, racconto e pensiero, dall’altro.

Il pensiero, anche quando è sostenuto dal linguaggio interiore che lo guida lungo un filo logico, non è mai una marcia forzata, non è una cronaca, ma sembra piuttosto un racconto. Racconto poetico, che segue un filo, ma in ogni momento sa evocare immagini e altri percorsi in cui perdersi.

Come esplorando una vecchia città, hai un percorso da seguire, ti lasci incantare da uno squarcio cercato, e poi ti colpisce un gioco di forme e colori inatteso, simmetrie diverse, suggestioni, anditi attraenti, e mentre ammiri un palazzo per la sua imponenza ti trovi a infilarti in un viottolo che ti avvolge nel suo mistero, o sbuchi su uno spiazzo aperto che ti sgomenta, o un giardino che ti accoglie affettuoso e avvolgente.

È così specialmente quando il pensiero cerca di esplorare la vita emotiva: ti accorgi di sguardi intuizioni emozioni che paiono sorgere da un altrove che hai dentro, e li esamini, li sciorini, li svolgi li percorri li dispieghi (spieghi) e spiegarli ti porta altrove ad altri sguardi, ad altre emozioni vissute o sognate, mentre la storia di quell’altrove che hai dentro segue vie diverse e presenta intuizioni ed emozioni che si dipanano e susseguono secondo altre logiche.

Non è poi così strano ritrovare questo incerto e molteplice procedere nel pensiero: tutto il cervello, dall’elaborazione delle sensazioni alla programmazione dei movimenti, è impregnato di questa contraddizione.

L’organizzazione delle reti neuronali permette al sistema nervoso di rielaborare l’informazione sensoriale in modo parallelo, preservando il suo modo di presentarsi come insieme di informazioni complesso, molteplice, unitario e istantaneo, ma al tempo stesso riconoscendo relazioni e schemi e traducendo così l’informazione, da coorte di elementi indipendenti in sistema di relazioni, oggetti, proprietà (dai punti che compongono un’immagine alla sua rappresentazione concettuale). Neurologicamente, siamo esseri visivi, si diceva, e siamo bravissimi con lo spazio, bravissimi a trasformare un’immagine in una realtà complessa e viva.

Il nostro cervello “applica” lo spazio a tutto ciò che può percepire simultaneamente.

Ma accanto a questa organizzazione spaziale, a questa elaborazione parallela, dell’informazione e della conoscenza, contemporaneamente, raffinati sistemi neuronali elaborano i dati in modo sequenziale.

Se guardiamo un quadro, l’occhio si muove a seguirei profili, scandisce gli elementi rilevanti, nel tempo, e il suo percorso viene registrato, come uno schizzo a carboncino che si aggiunge all’immagine e contribuisce a interpretarla e capirla. In più, buona parte del cervello, che guida i movimenti, è impegnata a disegnare programmare ed eseguire sequenze complesse, coordinate e ben temporizzate. Sono tutte regioni che contribuiscono a percepire e manipolare successioni, intervalli, a inventare e percorrere il tempo.

E così come percorriamo l’immagine, violandone l’unitarietà trasformandola in una narrazione, e cogliamo processi nel suo cambiare nel tempo, per converso sappiamo percepire il suono, sequenza pura di vibrazioni, in modo unitario, violarne l’inarrestabile movimento trasformandolo in percezioni e immagini salde e persistenti.

Sentiamo i suoni attraverso le cellule sensoriali della coclea, le cellule cigliate. L’orecchio percepirà pure variazioni di pressione, ma nel cervello ciò che si analizza sono “modi di variare” (suoni), e come questi si combinano a dare un’impressione, un colore, un’immagine (armonia); la loro stessa sequenza nel tempo (melodia) viene percepita come un insieme unitario, una frase melodica che evoca emozione, intuizione, e si lega ad un’altra in questo continuo intrecciarsi di immagini e percorsi.

Chi ha visto Fantasia di Walt Disney e non ricorda quelle rappresentazioni della nota di violino, striminzita tremante e strozzata come il collo di un pollo stirato, e quella di trombone che scende come miele gonfiandosi panciona e morbida?

Ed ecco ancora la molteplicità: il suono ha forma, ha anche colore: non è un caso che si usi la stessa parola, “tonalità” del suono, “tonalità del colore”. E il suono ha un’emozione.

Provate a suonare, o a farvi suonare, un accordo in do minore e uno in do diesis minore, e ascoltateli a occhi chiusi: non so a voi, ma a me il do minore dà un’impressione pensosa, dalla quale il do diesis minore mi porta invece a una leggera sospensione, come una certa sorpresa velata di domanda, di curiosità, di incertezza (guarda caso il do diesis minore è la tonalità della Sonata al Chiaro di Luna di Beethoven).

Questo permette di riconoscere caratteristiche di equilibrio e ordine nella sequenza dei suoni (armonia e melodia) e di godere della anticipazione e della sorpresa nell’ascolto musicale. E tutto questo ancora una volta parla di anima, nella molteplicità e complessità del vissuto.

Ma questo, fisiologicamente e banalmente, permette di riconoscere suoni complessi (o sequenze) cui sia associato valore di pericolo, avviso, attrazione, repulsione; di riconoscere suoni verbali che esprimono e comunicano emozioni; di riconoscere fonemi che vanno analizzati e combinati a riconoscere parole nell’ambito del sistema simbolico del linguaggio.

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Questo intreccio tra quadro complessivo momentaneo e percorso nel tempo impregna profondamente anche l’organizzazione dei sistemi motori: una buona parte − in termini di peso − di ciò che abbiamo in testa, e la gran maggioranza dei neuroni sono collocati in due strutture che hanno un ruolo fondamentale nel movimento: il cervelletto e i nuclei della base. Il cervelletto è un sistema di controllo che, comparando in ogni momento la posizione di muscoli e articolazioni con i comandi motori emessi dal cervello corregge i movimenti, in modo che rispecchino il “programma”. Ma in gran parte è una gran tabula rasa: modificando le connessioni al suo interno ogni volta che un movimento viene eseguito − e lui lo controlla e corregge − impara a svolgerlo da solo, istante per istante, ogni nuovo comando generato automaticamente dalla situazione di questo momento, ogni tasto schiacciato al pianoforte richiama automaticamente il movimento successivo delle dita... D’altro canto i nuclei della base verificano ogni comando motorio e controllano ogni muscolo del corpo che può aiutare o interferire con questo comando, o con il prossimo che nel cervello è già stato programmato; restituiscono tutte queste informazioni al cervello rendendo possibile eseguire gesti e sequenze di movimenti in modo fluido e armonico: chi ha un parente affetto dalla malattia di Parkinson, un disturbo dei nuclei della base, sa che cosa succede quando questo sistema funziona male, difficoltà a iniziare i movimenti, resistenza, rigidità, tremori...

Questi due sistemi sono forse i più importanti “generatori” del TEMPO nel nostro cervello, inteso come successione − un istante dopo l’altro − e come processo − fluire continuo di eventi. E come per ogni altra funzione − o meglio modalità di elaborazione − del nostro sistema nervoso, non vengono certo usati solo per una funzione (il movimento): questa capacità di riprodurre sequenze e di trasformare successioni in processi fluidi e armoniosi offre a tutti gli altri sistemi di elaborazione nel cervello il suggerimento e la percezione del tempo come linea lungo la quale si svolge una sequenza temporale, e come misura degli intervalli.

Tutto ciò si può astrarr e generalizzare fino a fornire l’asse temporale stesso, lungo il quale si può mappare ogni episodio, sequenza, storia. Nella generazione di questa concezione operativa del TEMPO nel nostro cervello, a questi sistemi si affiancano altri nuclei e sistemi che hanno attività temporizzata − sono molti nel sistema nervoso i neuroni che operano in questo modo, ad esempio i gruppi di neuroni dei centri del respiro, che regolano la periodicità dell’attività respiratoria − e un complesso gioco di ormoni che dà luogo a variazioni circadiane − nel corso delle ventiquattrore, anche sulla base del ciclo luce-buio − e stagionali.

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L’intreccio e integrazione di queste due modalità − parallela e seriale, che originano e plasmano lo SPAZIO e il TEMPO interiori − permeano tutte le funzioni superiori: il pensiero, il linguaggio, il vissuto emotivo e l’attività immaginativa procedono in modo analogo, intrecciando la presentazione di quadri complessi istantanei (intuizioni, immagini, emozioni) con l’elaborazione sequenziale (analisi, ricerca, spiegazione).

Questo intreccio di due modalità di processing − parallelo, iconico, evocativo da un lato e sequenziale, analitico, esplicativo dall’altro − è chiarissimo nel linguaggio: un FILO che corre nelle parole (cercando di seguire un percorso preciso) e un continuo generare significati (non necessariamente univoci e spesso capaci di evocazione e richiamo visivo).

E così la capacità di manipolazione simbolica della realtà ci regala nel linguaggio un sistema che non solo descrive e analizza, ma ai significati può e sa affiancare musica, e ritmo, e evocazione, emozione, intensità; un sistema che sa descrivere la vita e narrarla nelle sue mille dimensioni. Perché proprio questo continuo rincorrersi e intersecarsi di un discorso con intuizioni e evocazioni diviene narrazione, e talora poesia, trasforma l’informazione in racconto.

E, come bene ha detto Baricco, “il racconto, e non l’informazione, ti rende padrone della tua storia”.

Vi è una affascinante analogia tra un’immagine capace di catturarci, una musica travolgente, e un racconto, una poesia ben scritti.

Volendo riprodurre una visione occorre saper ricreare il quadro d’insieme, nella sua visibilità, con precisione ed esattezza per i particolari e le relazioni rilevanti − non c’è spazio per l’approssimazione, è possibile violare l’esattezza, ma consapevolmente e volutamente, pervicacemente, come Picasso nei suoi ritratti di donne dal viso smembrato e violato − e al tempo stesso occorre che l’immagine suggerisca i percorsi e tempi adatti a percorrerla, e sappia offrire molteplici elementi, relazioni, letture possibili, magari inattese, che ci lascino un margine di libertà e di leggerezza.

E così la musica richiede un’armonia fatta di suoni esatti − non necessariamente concordi, magari dissonanti − e una melodia che fonda gli accordi che si susseguono in una percezione unitaria, visibile, ma anche un ritmo fatto di tempi precisi per questi percorsi, e il contrappunto di melodie parallele o contrastanti, molteplici, che si intersecano e ci portano in una dimensione di incorporea leggerezza.

Esattezza, visibilità, tempo-rapidità, molteplicità, leggerezza...

Ma questo intreccio è chiarissimo nel linguaggio: un filo che corre nelle parole e un continuo generare significati, una sequenza che è musica e un significato che si vede...

Finisce che bisogna riconoscere che Calvino, nelle sue Lezioni Americane, elencando le cinque cose che si sarebbe messo nello zaino per affrontare il nuovo millennio − se ci fosse arrivato − e stilando così anche il più esauriente ricettario per la buona letteratura, ha finito per individuare le caratteristiche fondamentali che guidano la percezione, l’interpretazione, la lettura della realtà da parte del cervello, e le proprietà fondamentali del linguaggio e del pensiero stesso...

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Arrivato verso una conciliazione delle mie meditazioni, ancora una volta mi imbatto in Calvino. La fine del “Se una notte di inverno un viaggiatore...”. E in poche pagine dice tutto quello che ho cercato di scrivere fin qui. Quanto segue è un furto in senso stretto, e plagio e sfruttamento surrettizio. Solo qualche minimo cambiamento.

« Il suo sguardo vaga in aria. “Non sono occhi distratti, però i suoi: una fissità intensa accompagna i movimenti delle iridi azzurre. Ogni tanto i vostri sguardi si incontrano. A un certo punto ti rivolge la parola, o meglio, parla come nel vuoto, pur rivolgendosi certamente a te:

− Non si meravigli se mi vede sempre vagare con gli occhi. In effetti questo è il mio modo di pensare, ed è solo così che il pensiero mi riesce fruttuoso. Se una questione mi interessa veramente, non riesco a seguirla per più di pochi momenti senza che la mia mente, captata un’associazione che il testo le propone, o un sentimento, o un interrogativo, o un’immagine, non parta per la tangente e rimbalzi di pensiero in pensiero, d’immagine in immagine, in un itinerario di ragionamenti e fantasie che sento il bisogno di percorrere fino in fondo, allontanandomi dal problema fino a perderlo di vista. Lo stimolo della domanda mi è indispensabile, e d’una questione sostanziosa, anche se d’ogni problema non riesco ad affrontare che pochi aspetti. Ma già quei pochi aspetti racchiudono per me interi universi, cui non riesco a dar fondo.

La capisco bene, − interloquisce un altro, alzando il volto cereo e gli occhi arrossati dalle pagine del suo volume, − il pensiero è un’operazione discontinua e frammentaria. O meglio: l’oggetto del pensiero è una materia puntiforme e pulviscolare. Nella dilagante distesa della realtà l’attenzione dell’uomo distingue dei segmenti minimi, accostamenti di elementi, metafore, relazioni, nessi logici, peculiarità organizzative che si rivelano d’una densità di significato estremamente concentrata. Sono come le particelle elementari che compongono il nucleo di un’opera, attorno al quale ruota tutto il resto. Oppure come il vuoto al fondo d’un vortice, che aspira e inghiotte le correnti. E’ attraverso questi spiragli che, per lampi appena percettibili, si manifesta la verità che la realtà può portare, la sostanza ultima. Miti e misteri consistono di granellini impalpabili come il polline che resta sulle zampe delle farfalle; solo chi ha capito questo può attendersi rivelazioni e illuminazioni. Per questo la mia attenzione, al contrario di come diceva lei, signore, non può staccarsi dai dettagli reali neanche per un attimo. Non devo distrarmi se non voglio trascurare qualche indizio prezioso. Ogni volta che mi imbatto in uno di questi grumi di significato devo continuare a scavare intorno per vedere se la pepita s’estende in un filone. Per questo il mio studio non ha mai fine: leggo e rileggo ogni volta cercando la verifica d’una nuova scoperta tra le pieghe delle frasi.

− Anch’io sento il bisogno di riesaminare ciò che ho già visto, − dice un terzo lettore, − ma a ogni rilettura mi sembra di leggere per la prima volta un libro nuovo. Sarò io che continuo a cambiare e vedo nuove cose di cui prima non mi ero accorto? Oppure il pensiero è una costruzione che prende forma mettendo insieme un gran numero di variabili e non può ripetersi due volte secondo lo stesso disegno? ogni volta che cerco di rivivere l’emozione d’una intuizione precedente, ricavo impressioni diverse e inattese, e non ritrovo quelle di prima. In certi momenti mi sembra che tra una volta e l’altra ci sia un progresso: nel senso per esempio di penetrare di più nello spirito della realtà, o di aumentare il distacco critico. In altri momenti invece mi sembra di conservare il ricordo delle impressioni d’una stessa realtà l’una accanto all’altra, entusiaste o fredde e ostili, sparse nel tempo senza una prospettiva senza un filo che le leghi. La conclusione a cui sono arrivato è che il pensiero è un’operazione senza oggetto; o che il suo vero oggetto è se stesso. La realtà è un supporto accessorio o addirittura un pretesto.

Interviene un quarto: − Se volete insistere sulla soggettività del ricordo posso essere d’accordo con voi, ma non nel senso centrifugo che voi le attribuite. Ogni nuova esperienza che vivo entra a far parte di quel libro complessivo e unitario che è la somma dei miei ricordi. Questo non avviene senza sforzo: per comporre quel libro generale, ogni esperienza particolare deve trasformarsi, entrare in rapporto coi ricordi che ho costruito precedentemente, diventarne il corollario o lo sviluppo o la confutazione o la glossa o il testo di referenza. Da anni frequento questa biblioteca e la esploro volume per volume, scaffale per scaffale, ma potrei dimostrarvi che non ho fatto altro che portare avanti la lettura d’un unico libro.

− Anche per me tutte le esperienze che vivo portano a un’unica storia, − dice un quinto affacciandosi da dietro una pila di volumi rilegati, − ma è una storia indietro nel tempo, che affiora appena dai miei ricordi. C’è una storia che per me viene prima di tutte le altre storie e di cui tutte le esperienze che vivo mi sembra portino un’eco che subito si perde. Nelle mie letture non faccio che ricercare quel libro letto nella mia infanzia, ma quel che ne ricordo è troppo poco per ritrovarlo.

Un sesto, che stava in piedi passando in rassegna gli scaffali a naso alzato, s’avvicina al tavolo. − Il momento che più conta per me è quello che precede l’intuizione. Alle volte è un indizio che basta ad accendere in me il desiderio di un’esperienza che forse non è possibile. Alle volte è l’atmosfera che si crea, le prime percezioni... Insomma: se a voi basta poco per mettere in moto l’immaginazione, a me basta ancor meno: la promessa di una scoperta.

− Per me invece è la fine che conta, − dice un settimo, − ma la fine vera, ultima, nascosta nel buio, il punto d’arrivo a cui la realtà vuole portarti. Anch’io pensando cerco degli spiragli, − dice accennando all’uomo dagli occhi arrossati, − ma il mio sguardo scava tra i dettagli per cercare di scorgere cosa si profila in lontananza, negli spazi che si estendono al di là della parola «fine».

− E’ venuto il momento che anche tu dica la tua. − Signori, devo premettere che a me nella vita piace leggere solo quello che c’è scritto; e collegare i particolari con tutto l’insieme; e certe letture considerarle come definitive; e mi piace tener staccata un’esperienza dall’altra, ognuna per quel che ha di diverso e di nuovo; e soprattutto mi piacciono le idee da seguire dal principio alla fine. Ma da un po’ di tempo in qua tutto mi va per storto: mi sembra che ormai al mondo esistano solo storie che restano in sospeso e si perdono per strada. ... »

Ho solo cambiato le parole in corsivo, ne ho tolte tre o quattro, e modificato qualche articolo. Parlava di lettori, Calvino: libri, leggere, lettura. Così modificato, parla di pensiero, ricordi, vita, scoperte. Ma la differenza è lieve.

C’è una grande modernità in questa visione. Bando all’ermeneutica, poco importa il rapporto dell’autore con il testo. Il libro − la vita − è lì da leggere, il suo valore è in ciò che vi sai leggere, in come lo sai fare parte di te. E c’è soggettività, è vero, ognuno sottolinea un modo di porsi, ma nessuno dice no, nessuno nega la liceità, il valore, di una prospettiva diversa da quella che sostiene, perché ognuno si rende conto che la lettura − e il pensiero, l’esperienza, il ricordo − non è mai univoca, e c’è dentro tutto quello che Calvino dice, e molto altro ancora.

E tra lettori, parlando di libri, nessuno si risente per questo esasperato relativismo, per questa soggettività, concentrata sull’atto della lettura, che prescinde dal valore del libro e dell’autore. Tra letterati e critici nessuno oserebbe parlar così.

Ma di fronte al grande libro della vita − sapevo che prima o poi avrei trovato modo di usarla, questa espressione... − non siamo forse lettori, tutti noi? Lasciamo agli ermeneuti l’analisi del testo, di tutti i riferimenti e i rapporti dell’autore con ogni parola scritta, e lasciamo a filosofi e teologi l’analisi di che cosa sia reale e vero “in assoluto”, e dei rapporti di ogni elemento della natura con il suo anonimo autore. Occupiamoci piuttosto di come la realtà entra in noi, di ciò che resta in noi di ogni attimo della nostra vita, e di come trasformiamo tutto ciò nella nostra storia, che non è elenco di elementi situazioni e fatti, ma racconto di come li abbiamo vissuti e li viviamo.

Capire davvero il proprio ruolo è spesso il modo migliore, l’unico forse, di capire ciò che ci sta di fronte. Siamo lettori, ognuno con i suoi gusti, in una biblioteca dove la realtà è fatta di libri, scritti per noi. Non sembri azzardata la metafora, e neppur poco scientifica. Si tratta di non lasciarsi ingannare dalle parole. La realtà − la natura e la vita − è davvero un libro scritto per noi. Perché ripercorrendo l’evoluzione e lo sviluppo delle funzioni superiori del cervello non si può sfuggire alla banale conclusione che siamo fatti − il nostro cervello è fatto − per leggere il libro della natura. La realtà è scritta per noi, perché noi siamo fatti per leggerla.

Questa può apparire una frase ottimistica, visto come è facile ingannare i nostri sensi − si pensi alle illusioni ottiche − e fraintendere processi naturali complessi. Eppure, siamo stati capaci di capire principi fisici che governano mondi microscopici che non possiamo neppure vedere, che fatichiamo a immaginare, siamo arrivati a chiarire che lo spazio e il tempo non sono quello che sembrano, che l’intera struttura dello spazio e del tempo va in tilt di fronte a velocità elevate, alle accelerazioni, alla gravità, a capire che non occorre che l’infinito sia illimitato, a comprendere che il limite tra materia e energia non è una barriera ontologca, che anzi si possono convertire una nell’altra. Questo indica che il nostro cervello è progettato per cercare spiegazioni su tutte le informazioni che riesce ad ottenere: non solo i dati che i nostri sistemi sensoriali sono in grado di acquisire dal mondo esterno, ma anche ogni possibile conseguenza logica che ne derivi, e molte informazioni ancora che possiamo ottenere indirettamente sviluppando metodi e strumenti di indagine... Mai soddisfatto, mosso da una forza che possiamo chiamare “sete di conoscenza”, o possiamo più semplicemente interpretare come conseguenza del principio di funzionamento di tutte le strutture cerebrali: NAVIGARE l’informazione cercando di rapprenderne visioni unitarie, navigare tra le visioni unitarie cercando di coagulare una visione più generale, e poi daccapo, cercando di conciliare i diversi risultati...

La realtà è scritta per noi, perché noi siamo precisamente fatti per leggerla. La realtà è un sistema iper-complesso, intersezione di innumerevoli livelli di organizzazione e complessità, ogni sottosistema governato da insiemi diversi di regole, e nel complesso fondamentalmente (direi “ontologicamente”) affetto dal principio di indeterminazione. La realtà non si può comprendere con un solo approccio, secondo un unico criterio. E’ necessario interpretare simultaneamente in mille modi diversi e conciliare i risultati, accettando l’idea che resterà comunque un margine di incertezza, e in generale diverse letture reggeranno contemporaneamente, e si dovranno accettare, anche se in certi aspetti si scontrano diametralmente tra loro, per cogliere la realtà nella sua essenza. E questo è esattamente il modo in cui lavora il nostro cervello: nessuna lettura unica, ricerca di armonie, e armonie di armonie, meta-armonie, ala faccia di incertezze e ingannevolezze dei sensi, guidato dal principio fondamentale che a me piace chiamare semplicemente “estetica”.

Curiosamente, se questa molteplicità di letture e livelli, con tutte le incoerenze che ne possono seguire, è guidata da un principio comune (la ricerca di armonia a tutti i livelli), allora lungo questa linea di pensiero non arriviamo al “relativismo” tanto temuto in Vaticano, ma piuttosto all’idea che ad ogni livello sono ammissibili diverse interpretazioni, ma in nome del principio COMUNE (la ricerca di armonia) a livelli più elevati di complessità si possono raggiungere convergenze, compromessi generale e sintesi condivise.

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Ecco dunque che come lungo questi assi − esattezza molteplicità rapidità visibilità leggerezza − lo scrittore sa via via trasformare la cronaca in narrazione, e di qui con la sua creatività e sensibilità artistica può generare leggenda e mito, così il pensiero e la vita interiore si allontanano dagli elementi e dalle sequenze dell’esperienza trasformando la percezione in intuizione e ragionamento, pensiero, e poi fantasia e sogno. Perché l’intuizione non è fatta di dettagli ma piuttosto di significato atmosfera emozione e la sua sostanza sono piuttosto le relazioni (l’insieme, la molteplicità, la complessità i mille livelli la struttura delle relazioni) che non gli elementi. E dell’intuizione ci si impossessa esaminandone (percorrendone) i mille aspetti. È un processo che dalla cruda realtà del dato arriva all’interpretazione e alla regola, ma di qui può proseguire verso altre regole possibili, verso altre letture, verso la libertà.

E non ci si può fermare. Se gli elementi e le relazioni, le conoscenze, non sono sufficienti per derivare una interpretazione rigorosa nessuno si ferma, comunque, e dunque sarà leggenda, mito, fantasia, a generare una lettura possibile. È lo sguardo del bambino, che avido di informazioni e interpretazioni capisce quel che può capire e accetta per il resto ogni interpretazione, ogni lettura, che altri gli sappia offrire o lui stesso sappia trovare.

Carrol nella sua Alice coglie l’essenza del pensiero, del discorso, come viaggio in un paese straniero, ignoto, nuovo, inesplorato. Sei in balia di un mondo che richiama il tuo sguardo e ti propone e richiede di volta in volta sguardi diversi. Ed ecco Alice, mai in imbarazzo di fronte a qualsiasi lettura, anche la più assurda e paradossale, vera pluralista e spassionata investigatrice del mondo. Ma lei è bimba, naïve, semplicemente libera di “divagare” (tra le meraviglie del suo mondo...)

Adulto, quando SAI, quando i conti tornano e par di capire davvero, sembra di doversi fermare. Smettere di cambiare angolazione e accettare letture diverse. Eppure, provare altre letture, liberarsi dei limiti di un’interpretazione canonica, vedere relazioni altre e inaspettate, cercare altre prospettive attrae. Non rinunciare a quello che è rimasto in noi dei bambini che eravamo. “Divagare” in altre dimensioni in cerca di armonie più alte, non più solo conoscenza ma comprendere, prender dentro, sentire, vivere...

Sì, Alice è bambina e libera di ‘divagare’. Ma se sai, diviene poesia.

E forse l’aspetto più curioso del NOSTRO tempo, di quello del pensiero, che non si ferma alla prima lettura ma sempre corre oltre, e curioso si lascia fuorviare e riprendere, è che ogni sequenza di eventi, per quanto irreversibile, si può risalire all’indietro, e rovesciare il tempo; ma il percorso del pensiero, segnato da un tempo non causale, da un prima−dopo gratuito, evocativo, curioso, quello no (come sono arrivato a questa idea quest’immagine questo ricordo?). No. Evapora spesso irripetibile come i sogni all’alba.

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A proposito di cellule cigliate

La prima volta che le ho parlato di cellule cigliate Lella mi ha guardato con due occhi così: “Come, nell’orecchio!? casomai ci si aspetterebbe fossero nell’occhio, no?”. Sante parole, ma nell’occhio non saprebbero che farsene di un ciglio, cui la luce farebbe − bieco gioco di parole − un baffo. Nell’orecchio invece il ciglio può vibrare in risposta al suono, e attivare la cellula che informa così gli appositi neuroni di averlo percepito.

Su per la chiocciola − nell’orecchio interno − i suoni procedono e arrivano solo fino ad un certo punto: quelli più alti − frequenze elevate − si fermano subito, mentre quelli più bassi arrivano fino in cima (ça va sans dire, direbbe la massaia, che sa bene che per rifare il letto il lenzuolo va fatto oscillare lentamente, se no non svolazza fino in fondo, e lo direbbe anche un buon tifoso o manifestante, che sa che le bandiere piccole si possono anche agitare in fretta, ma per quelle grosse ci vuole calma, mano ferma e movimento ampio). Così, ogni cellula cigliata, a seconda di dove se ne sta lungo la spirale della chiocciola, “sente” meglio uno o l’altro suono, e riconosce così preferibilmente una vibrazione ad una precisa frequenza, la SUA frequenza preferita. E come i neuroni, anche le cellule cigliate sono generose, laboriose e disinteressate, a costo di soffrire, quando il ciglio si muove troppo, elettroliti − e calcio in particolare − entrano e escono dalla cellula, a costo di morire se la sollecitazione è troppo intensa.

Così muoiono le cellule cigliate in discoteca.

Ma c’è un aspetto triste e curioso: a uccidere ogni cellula cigliata non è un suono qualsiasi, no, per ognuna è proprio il SUO suono, la sua nota preferita, quella per cui è stata studiata, quella a cui è destinata, la sua nota gemella...

“Oddio! − ha esclamato Lella − il suo unico amore... AMORE E MORTE!...”

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cap. prec. successivo
 
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