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Fisiologia dell’anima - o, se preferisci, - neuroni & anima
Riccardo Fesce - tutti i diritti riservati (editori e agenti interessati, inviare una mail)
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V

INSOMMA, CHE NE CAPIAMO NOI? − Neurofisiologia cognitiva

Il dottor Franz Joseph Gall, all’inizio dell’Ottocento, aveva già capito tutto: ecco qui l’area della comparazione, lì la musica, il tempo, il colore, l’ordine, il peso, la dimensione...

Ecco qui il calcolo, se uno ha quest’area più sviluppata è più bravo a calcolare e il cranio forma una bozza qui: il bernoccolo della matematica.

Ci aveva già spiegato tutto.

E non si dica che quelle che ho citato sono solo capacità cognitive, nulla a che fare con l’anima, perché lì abbiamo la coscienziosità, la speranza, l’idealità, la spiritualità, qui l’amore, e l’amore paterno, persino la fedeltà coniugale − se uno il bernoccolo non ce l’ha...

Anima, parola incerta, una di quelle parole come vita, intelligenza, memoria (amore?) che cambiano senso e colore a seconda dei momenti e del contesto, di quelle che per ognuno di noi hanno un significato diverso, anzi mille significati diversi.

Difficile catturarla. Ma guardando il cervello esso appare altrettanto ricco di processi, modi, approcci, rappresentazioni e interpretazioni. Capace di innumerevoli molteplicità contemporanee e contrastanti, e mille livelli di analisi e sintesi, e metanalisi, e resintesi, e ridiscussione.

E allora una scienza che osi affrontare un sistema tanto complesso, intricato e variegato, non può più tirarsi indietro di fronte allo sgomento della complessità e dell’infinito. Perché proprio questo fa il cervello: affrontare complessità e infinito. Trasforma ogni informazione che gli arriva, la legge simultaneamente in mille diversi modi, scompone e riunifica elementi e relazioni, e non costruisce così solo rappresentazioni, ma criteri e interpretazioni.

Potremmo definire la capacità di trasformare i dati sensoriali in una rappresentazione di elementi e relazioni un processo di “astrazione”? Immanuel Kant forse vi riconoscerebbe una inattesa materialità del processo di conoscenza trascendentale: l’applicazione di un “filtro” all’esperienza sensoriale. Ma dovrebbe allora ammettere che almeno alcune delle “categorie” che costituiscono lo schema trascendentale − che dovrebbe mediare tra intuizione sensibile del fenomeno e concettualizzazione intellettuale − di fatto si interpongono prima ancora di poter arrivare a una vera e propria intuizione sensibile: categorie (rigorose o meno) quali unità, molteplicità, negazione, limitazione, comunanza, e reciprocità sono immanenti agli schemi neuronali stessi di rielaborazione dei segnali sensoriali.

Forse sarebbe più preciso allora parlare di traduzione. Se l’intelletto interpreta i dati sensoriali, questi sono già stati tradotti prima di arrivarvi, secondo una serie di schemi di rielaborazione per nulla elementari. E questi stessi schemi di rielaborazione sono reali e materiali (riconoscibili nel cablaggio neuronale) e come tali oggetto di indagine scientifica. Indagine che negli ultimi vent’anni ha subito una accelerazione impressionante.

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Come già detto, la differenza fondamentale tra uomo e altri animali è l’impressionante sviluppo di aree corticali associative multimodali, regioni della corteccia cerebrale che si occupano di combinare le letture eseguite da altre regioni e “interpretarle”, integrando informazioni che provengono da modalità sensoriali diverse e hanno rilevanza diversa: informazioni visive, uditive, viscerali, motorie, emotive... Le regioni in cui convergono informazioni di tipo diverso estraggono proprietà che non sono presenti né identificabili nelle singole sorgenti e modalità di informazione: è una reinterpretazione nuova, molteplice e sfaccettata. Ed è una reinterpretazione diversa in ognuna delle regioni “multimodali” della corteccia cerebrale, una lettura che, a mano a mano che si moltiplicano angolazioni e livelli di complessità aggiunge risalto, spessore e rilievo all’informazione grezza e piatta.

Il risultato fondamentale di questo processo è che ogni dato sensoriale − oggetto, fenomeno, situazione − si traduce nella attivazione di un certo numero di neuroni nella corteccia; da un lato questo schema di attivazione è in pratica l’equivalente cerebrale di quel dato sensoriale; dall’altro ogni neurone − o gruppo di neuroni − che fa parte di tale schema rappresenta una caratteristica del dato stesso, e verrà attivato anche da altri dati sensoriali che presentino quella stessa caratteristica − e farà parte anche degli schemi di attivazione neuronale che corrispondono a tali dati.

Per certi versi è come tradurre un disegno in una sua descrizione: lì una forma tondeggiante sul rosa, con due macchie d’ombra sormontate da trattini neri, una prominenza centrale, una macchia allungata orizzontale rossiccia che si muove cambia forma e lascia talora spazio a segni bianchi o una regione centrale più scura, il tutto circondato da un garbuglio di colore incerto scuro, e poco più a destra... Chi gioca col computer sa che è possibile disegnare sullo schermo, usando anziché un pennello virtuale strumenti che creano quadrati, triangoli, cerchi, forme poligonali o curve, pieni o vuoti, colorati a piacere, magari con sfumature. Un modo di disegnare che salva spazio sul computer, rispetto al creare file dove è rappresentata un’immagine con un valore di rosso uno di verde e uno di blu per ogni punto dell’immagine stessa. E un modo di disegnare che permette di modificare elementi e relazioni con facilità, senza dover cancellare o ridisegnare, semplicemente cambiando le caratteristiche geometriche o di colore, le proprietà visibili degli oggetti grafici che costituiscono il disegno.

L’aspetto più rilevante di questa traduzione di ogni esperienza in uno schema di attività neuronali sta forse nel fatto che l’attività di certi neuroni o gruppi di neuroni rappresenta la presenza di specifiche relazioni nel “vissuto” sensoriale. Un esempio: nella parte anteriore della corteccia parietale giungono, ordinate in modo topologico, tutte le informazioni somato-sensoriali − sensibilità tattile e cutanea, e sensibilità “propriocettiva”, che informa sulla posizione dei muscoli e delle articolazioni − in modo da disegnare una mappa virtuale del corpo su questa regione della corteccia; dalla corteccia occipitale, posteriormente, arriva l’informazione visiva interpretata, via via che ci si allontana dall’area visiva primaria verso il lobo parietale, soprattutto in termini di relazioni spaziali; la regione della corteccia parietale interposta tra queste due aree elabora le informazioni sul proprio corpo e quelle sullo spazio esterno mettendole in relazione. Vari gruppi neuronali in questa regione sono quindi incaricati di riconoscere relazioni di vicinanza, lontananza, ripetitività e ordine: ognuno si attiverà ogni volta che una di questo tipo di relazioni è riconoscibile nello spazio, e la sua attivazione rappresenterà propriamente questa relazione. Ma procedendo con la complessità dell’elaborazione è evidente che in questa regione altri neuroni specifici si occuperanno non più di relazioni spaziali semplici ma dei rapporti reciproci tra tali relazioni, fino a inquadrare oggetti ed eventi dell’esperienza in un reticolo intricato di rapporti spaziali che costituisce essenzialmente l’idea stessa dello spazio. Sì, la consapevolezza dei rapporti spaziali nasce proprio dalla attività di questi gruppi di neuroni: un soggetto che subisca una lesione in questa area della corteccia, su un lato del cervello, perde l’interesse per i rapporti spaziali nella metà opposta dello spazio (le informazioni che arrivano dalla metà sinistra del corpo sono elaborate dalla metà destra del cervello e viceversa); se la lesione è a destra perde la consapevolezza stessa della metà sinistra del mondo: sbatte contro spigoli e ostacoli presenti a sinistra, se gli si chiede di riprodurre il disegno di un fiore ne riproduce solo la parte destra − eppure ci vede bene, perché se gli si propone il disegno di due fiori vicini li riproduce entrambi; ma di ognuno solo la parte destra...

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Uno schema di attività neuronale per ogni oggetto, per ogni relazione, per certi verso uno schema specifico − quei neuroni attivati in quel modo − per ogni concetto. Può sgomentare, ma la parola è proprio questa. In regioni vicine a quelle che elaborano i rapporti spaziali vi sono gruppi di neuroni che riconoscono sequenze spaziali e in particolare forme di ordine e serie ordinate. Può stupire, ma vengono “usati” anche per elaborare informazioni che provengono da altre regioni della corteccia e nulla hanno a che fare con le relazioni spaziali nelle informazioni sensoriali: la loro attività è indispensabile per contare, enumerare, riconoscere gerarchie (di posizione, di dimensione, di luminosità ma anche di età, di importanza, di rilevanza emotiva): guarda caso, ogni volta che una operazione mentale implica qualche forma di conto, dalla numerazione a calcoli matematici più sofisticati, sono proprio i neuroni di quella regione a mostrare intensa attività.

In generale, seppure più rozzamente, anche in animali con cervelli meno sviluppati le modalità di elaborazione dell’informazione sono simili: la finezza, la profondità, la versatilità e la precisione del riconoscimento di caratteristiche e relazioni sono di gran lunga più rudimentali. La differenza decisiva, però, non sta qui, ma nella intensità e ricchezza delle elaborazioni multimodali, nella capacità cioè di mettere in relazione in mille modi informazioni di tipo diverso − visive uditive tattili cinetiche propriocettive viscerali emotive − fino a creare schemi di attivazione neuronale che corrispondono a quella specifica combinazione di aspetti sensoriali, relazionali − e in una parola cognitivi − che caratterizza sinteticamente un concetto, quella entità astratta che permette di classificare i cani come diversi dai gatti sebbene tutti abbiano quattro zampe pelo e una coda − e un chihuahua assomigli più a un gatto che a un alano o a un mastino napoletano, − o una foto come diversa da un quadro, o un sogno come diverso da un desiderio.

L’enorme sviluppo, nell’uomo, delle regioni associative multimodali della corteccia cerebrale, permette una quasi infinita moltiplicazione dei concetti rappresentabili, nella loro complessità, nelle loro differenze più fini e relazioni più sottili, intricate e sofisticate. Questo enorme sviluppo si accompagna ad un altro grande salto evolutivo, l’imponente progresso nella possibilità di modulazione dei suoni, grazie ad un apparato vocale molto più sofisticato di ogni altro animale e la grande espansione delle porzioni che elaborano la percezione e l’emissione dei suoni. Non è facile dire quale dei due progressi abbia favorito lo sviluppo dell’altro: presumibilmente ognuno dei due ha reso possibile l’altro, la ricchezza del materiale sensoriale e cognitivo da elaborare e la complessità dei circuiti e dei modi di elaborazione sono probabilmente cresciuti insieme e non tutti d’un colpo. E parliamo di elaborazione della percezione dei suoni, quella è molto più sofisticata, non la possibilità di percepirli: una scimmia, o anche un topo, non sente meno di noi, non ha affatto più difficoltà a distinguere due suoni diversi, ma elabora tale percezione in modo molto meno complesso e raffinato.

L’enorme capacità di classificazione relazionale e interpretata, assieme alla disponibilità di un infinito repertorio di suoni (fonemi) che si possono combinare in precise sequenze, crea la possibilità di associare una successione di fonemi (parola) ad ogni pattern di attivazione neuronale − ad ogni concetto sensoriale − ed anche alle relazioni stesse tra tali concetti; e queste combinazioni di fonemi possono essere legate da relazioni − legami fonetici, morfologici, grammaticali e sintattici tra le parole − che riproducono ogni possibile rapporto tra oggetti, eventi e relazioni, ogni possibile rapporto osservato o anche solo immaginato, e persino assurdo o impossibile.

La produzione di un tale sistema di relazioni astratte tra elementi, associati arbitrariamente a oggetti relazioni e gesti, costituisce un sistema simbolico. Questa è la caratteristica fondamentale dell’elaborazione neuronale nell’uomo, resa possibile dalla versatilità motoria e fonetica e dal sostanziale sviluppo della corteccia multimodale: diviene possibile la manipolazione simbolica del reale.

Una regione in particolare gioca un ruolo fondamentale nella produzione del sistema simbolico più versatile e potente generato dal cervello umano, il linguaggio. Chi ha studiato diligentemente i paragrafi di neurofisiologia in pillole, sopra, non avrà dubbi su dove quest’area si deve trovare: nella porzione laterale della corteccia, un po’ a mezza via tra le zone di elaborazione visiva, uditiva, somestesica, vicina anche al sistema limbico, e possibilmente abbastanza avanzata da combinare anche informazioni sugli schemi motori. In questo modo, qui è possibile raccogliere le informazioni sulla forma, la consistenza, il suono, il possibile uso pratico, il valore emotivo e affettivo, di un oggetto e associarvi un insieme di suoni − una parola − che lo rappresenti; una parola, sia come la sentiamo con l’orecchio, sia come la pronunciamo attraverso una complessa modulazione dei movimenti della laringe e della lingua. Questa regione si chiama area di Wernicke ed è fondamentale per il linguaggio, non tanto per la fonazione (l’emissione dei suoni e delle parole), quanto per la capacità di scegliere correttamente le parole, di metterle correttamente in relazione per esprimere un concetto. Una lesione in quest’area non impedisce di ripetere perfettamente una frase, ma impedisce di pronunciarne una originale senza confondere i suoni nella formazione di parole e senza sbagliare nello scegliere le parole adatte. E’ curioso come piccole lesioni nella porzione temporale di quest’area, la parte superiore del lobo temporale, interferiscano con la capacità di trovare e usare specifici gruppi di parole, come ad esempio quelle che si riferiscono ad azioni, o a strumenti di lavoro, oppure i nomi geografici o quelli delle persone. Questo è uno degli aspetti più demoralizzanti per chi rifiuti una visione “neuronale” delle funzioni cognitive, perché conferma in modo disarmante come la memoria organizzata e classificata si basi proprio sulla fissazione di risposte apprese in precisi schemi neuronali, ben localizzati in una certa regione della massa nervosa del cervello.

Presumibilmente proprio la versatilità fonetica permette il balzo simbolico, perché permette una efficientissima trascrizione, simbolica appunto. E questa conquista a sua volta spinge e sostiene lo sviluppo ulteriore di aree corticali addette alla elaborazione simbolica, dai primi prototipi di homo all'homo sapiens sapiens (chissà che il prossimo non sia l’homo modestus...).

Tutto ciò non significa che senza la parola non si possa sviluppare capacità simbolica: il cervello umano è ormai così ricco di queste possibilità che è in grado di giovarsi di qualunque modalità di codificazione simbolica − da gesti mimici e scheletomotori al disegno e alla scrittura − per raggiungere lo scopo. Semplicemente, senza la codifica verbale probabilmente lo sviluppo evolutivo della corteccia non sarebbe stato così imponente e rivoluzionario.

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Il generarsi della capacità di rappresentazione simbolica, attraverso le precise modalità di funzionamento di specifici sistemi neuronali, non è solo affascinante − almeno per chi soffre di quella deformazione della curiosità intellettuale che lo rende sensibile al fascino di comprendere come e perché. Suscita anche un sottile sgomento, e la chiara sensazione che qui stia succedendo qualcosa di grosso. Qualcosa che non permette di andare avanti ragionando in termini di connessioni, regolazioni funzionali, reti di neuroni e processi strettamente meccanicistici. Quando un sistema come il cervello impara a manipolare simboli anziché informazioni nasce la possibilità non solo di rappresentare la realtà, ma di interpretarla, di immaginarla diversa, di trovare risposte a domande come “e se ora succedesse che...?”, e di inventarsi così gli strumenti e le strategie per cambiarla.

Nasce una nuova dimensione, nel cervello umano, nasce quel mondo delle idee che Platone immaginava nascosto in una grotta, sede della realtà vera e invisibile all’uomo se non attraverso le ombre delle apparenze sensibili del mondo materiale. Curioso, questo capovolgimento, perché suggerisce che tra i nostri sensi e il mondo delle idee vi siano sì mediazioni complesse e imponenti, ma che tali mediazioni stiano nel nostro cervello, abbiano basi biologiche e fisiologiche, e possano essere studiate e chiarite in sempre maggior dettaglio. Vero resta che non possiamo avere sicurezza della realtà là fuori, i sensi possono ingannarci. E allora il mondo delle idee in cui si agita il nostro intelletto può essere una costruzione del nostro cervello che non riflette affatto l’essenza più profonda e precisa della realtà esterna. Beh, certo, è possibile. Resta un margine di inconoscibile, chi lo può negare, una regione filosofica, o meglio forse mistica, nella quale il volo può solo essere cieco, e forse per questo è ancor più emozionante: il mondo e la vita si possono immaginar diversi da come li vediamo e li viviamo. Chi voglia divertirsi così ne ha diritto. Ha diritto di mettersi a volare, speriamo trovi la finestra aperta quando vorrà tornare, e non sia costretto come Peter Pan a fare il pendolare con l’isolachenoncè...

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Negli schemi complessi di attività neuronale che rappresentano aspetti della realtà esterna (oggetti e relazioni tra oggetti) si possono riconoscere diversi tipi di sottoschemi. Da un lato l’attivazione di certi neuroni rappresenterà aspetti persistenti dell’oggetto (o relazione), aspetti essenziali, che saranno condivisi da oggetti o relazioni simili, e che si possono generalizzare fino a permettere di classificare e riconoscere come “simili” anche oggetti e relazioni mai incontrati in precedenza, ma che presentino gli stessi tratti e possono pertanto produrre gli stessi schemi di attivazione neuronale. Come dire che sono la stessa cosa (si cerchi per cortesia un nome per indicarli tutti). D’altro lato vi saranno sottoschemi che rappresentano caratteristiche degli oggetti o relazioni, che possono o meno essere presenti, sottoschemi qualificativi che possono essere condivisi con altri oggetti e relazioni, anche se questi sono essenzialmente diversi. Sono caratteristiche accidentali (attributi) che possono o meno presentarsi e riferirsi all’oggetto. Altri sottoschemi, infine, rappresenteranno relazioni con il contesto o con altri oggetti/relazioni: relazioni spaziali, di somiglianza-diversità, di comportamento collettivo, di associazione e successione nell’esperienza passata, e possibile causalità...

In realtà questo tipo di classificazione semantica dei sottoschemi neuronali che costituiscono l’esperienza può restare implicita, non avvertita e tantomeno dichiarata. Può non essere verbalizzata. Anche così può funzionare perfettamente come strumento per la lettura e l’interpretazione implicita della realtà, per il rapido adattamento a esperienze nuove grazie al riconoscimento di schemi posseduti e alla loro manipolazione per adattarli alla nuova situazione, e per un comportamento anticipatorio sulla base delle previsioni che l’applicazione di schemi noti permette di eseguire nella nuova situazione. Ne deriva una intelligenza implicita, non verbale, che pure permette la soluzione di problemi operativi anche complessi. Non occorre capire esplicitamente e tantomeno saper spiegare.

L’animale si ferma qui.

Ma quando ai meccanismi di associazione, comparazione e generalizzazione si affianca la manipolazione simbolica, la situazione cambia drasticamente. La associazione coordinata e sistematica di un segno ad ogni schema o sottoschema di attività neuronale comporta automaticamente la generazione di un intricato e sofisticato sistema di relazioni tra i segni stessi, di una struttura che riproduce le caratteristiche formali del sistema di relazioni tra gli schemi di attivazione neuronale. Un sistema simbolico, nel quale ogni segno diviene simbolo, dotato non solo di significato ma di un reticolo di precisi e ineluttabili rapporti con gli altri simboli.

Ne derivano due conseguenze generali sul sistema simbolico nel suo complesso: una morfologica e una strutturale.

L’aspetto morfologico: inevitabilmente intere famiglie di simboli si potranno generare grazie a variazioni sul tema, applicando regole fisse di trasformazione di ogni simbolo. Nel linguaggio, ad esempio, ciò si traduce nella possibilità di apporre prefissi o desinenze, ripetizioni e accenti per indicare variazioni di genere (maschile/femminile), di numero (singolare/plurale), della collocazione temporale o di altre modalità di una azione (modi e tempi dei verbi). Un banale principio di economia porterà inevitabilmente a questo tipo di evoluzione del sistema simbolico, dal momento che ogni dato dell’esperienza si può presentare con caratteristiche variabili e darà pertanto luogo ad uno schema di attivazione neuronale che potrà presentare sottoschemi alternativi: tali caratteristiche variabili si traducono agevolmente in modificazioni morfologiche di uno stesso simbolo; la stessa caratteristica variabile, riscontrata in altri dati dell’esperienza, si traduce facilmente applicando al simbolo corrispondente la stessa (o una simile) modificazione morfologica... Intere famiglie di simboli possono così essere generate per analogia.

L’aspetto strutturale è forse ancor più inevitabile e sostanziale. I simboli con valore semantico diverso (che rappresentano tratti essenziali oppure caratteristiche variabili oppure ancora modalità o aspetti relazionali) non possono essere intercambiabili nella struttura del sistema simbolico: le loro relazioni possono seguire solo alcuni determinati schemi. La rappresentazione simbolica di qualunque aspetto della realtà esige che vi sia almeno un simbolo che rappresenta l’essenza di un oggetto o relazione (simbolo con funzione di sostantivo); simboli qualificativi si possono solo associare ad altri simboli, che possono essere a loro volta qualificativi ma in ultima analisi devono riferirsi ad un sostantivo; simboli che rappresentano una relazione (forme verbali) costituiscono infine l’aspetto semantico più rilevante della rappresentazione simbolica e, dato che la maggior parte delle relazioni è caratterizzata da asimmetria, vanno avvicinati agli altri simboli secondo regole ben precise che permettano di individuare in modo non ambiguo la direzione della relazione (chi è il soggetto ed eventualmente chi l’oggetto della relazione). Simboli che rappresentano modalità (come le forme avverbiali in genere nel linguaggio) sono tipicamente dispensabili − l’informazione che portano è solo aggiuntiva − ma regole certe dovranno definire con quali altri simboli sono da porsi in relazione.

Tutto ciò ci conduce ad una osservazione a prima vista curiosa: qualunque sia lo strumento simbolico che verrà impiegato per rappresentare e interpretare la realtà, e eventualmente analizzarla astrattamente o riprodurla o comunicare la propria lettura, se il sistema di simboli è generato da una rete neuronale con le caratteristiche del cervello il sistema di simboli presenterà necessariamente alcune caratteristiche di variabilità morfologica e di struttura sintattico-grammaticale fisse e comuni con qualunque altro sistema simbolico generato da una analoga rete neuronale. E in altre parole tutti i linguaggio naturali umani dovranno condividere certe caratteristiche strutturali e di variabilità morfologica. E questo proprio a causa del meccanismo con cui l’informazione in ingresso viene scomposta e analizzata, traducendola in uno schema di attivazione neuronale che costituisce la composizione di tutti gli aspetti specifici che possono essere rilevati nell’esperienza sensoriale: elementi, caratteristiche, relazioni e modalità.

Osservazione forse curiosa, ma poco originale, in realtà: al solito, qui non si scopre nulla. L’analisi dei linguaggi naturali, rigorosamente affrontata da Chomsky, ha già fornito questa chiave di lettura, straordinariamente potente e capace di unificare tematiche tradizionalmente scientifiche e questioni filosofiche fondamentali. Al di là delle critiche che ogni tentativo di rilettura si tira addosso − e tante più se ne tira addosso quanto più rivoluzionario è il nucleo della intuizione sottostante, e tante più irrilevanti e marginali rispetto alla sostanza della questione − non si può negare che le scoperte di Chomsky abbiano inquadrato con estrema chiarezza e su basi nuove ogni tentativo moderno di affrontare la problematica del linguaggio naturale. La sua fondamentale intuizione, ampiamente dimostrata, è che al di là delle spettacolari differenze fonetiche e terminologiche tra i vari linguaggi naturali, essi sono legati da analogie forti in termini di struttura, da caratteristiche grammaticali fondamentali comuni, che indicano che buona parte della struttura di qualsiasi linguaggio naturale si basa su proprietà biologiche, genetiche, neurologiche dell’uomo.

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E via che ci si perde ancora più lontano. L’informazione entra nel cervello, si sfiocca in miriadi di rappresentazioni e dà il via a un balletto astratto che giustifica la logica astratta e persino il linguaggio. Bisognerà ben tornare coi piedi per terra, se prima o poi vogliamo discutere di che cosa regola la risposta comportamentale.

Ma è ancora presto. Non si è ancora parlato di emozioni, non si è ancora accennato alla coscienza.

A come si agisce penseremo dopo. Pensiamo, prima di agire!

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