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Fisiologia dell’anima - o, se preferisci, - neuroni & anima
Riccardo Fesce - tutti i diritti riservati (editori e agenti interessati, inviare una mail)
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XII

ARMONIA − L’anima

Negli ultimi trent’anni abbiamo conquistato una incredibile quantità di informazioni sul funzionamento e l’organizzazione delle cellule nervose, del sistema nervoso e del cervello, che ci obbligano ad assumere uno sguardo scientifico nuovo, più alto e ambizioso.

Sono molti gli aspetti della nostra vita − percezione e idea di sé, sentimenti, motivazioni etiche e ideali, bisogno di superare i limiti del corpo e del tempo, di armonia, di bello, di infinito − che fanno pensare all’anima. Per ognuna di queste istanze si riconoscono oggi meccanismi, circuiti, processi e modi, nel cervello, capaci di originarli e delinearli.

Ma per comprendere queste nuove prospettive occorre addestrarsi a guardare ogni aspetto della realtà e processo di conoscenza da dentro e da fuori, apprezzare i limiti di ogni approccio e di ogni logica pur senza rinnegarla quando si guarda oltre.

E appaiono chiare le parole chiave:

  • la MOLTEPLICITA' − non un solo modo, più di un approccio, tanti meccanismi, mille possibilità, infinite letture
  • il META − qualcosa che ricorda la dialettica degli idealisti, il trascendentalismo di Kant: saper uscire, vedere ogni singolo sistema che ci sta davanti in sé, ma anche la sua logica, da fuori, in rapporto ad altre logiche, in sistemi più vasti
  • il BELLO − l’incanto del cogliere aspetti unificanti, sintesi superiori, il gusto di armonie tra molteplicità meta e logiche diverse, la sintesi di sguardi.

Gli innumerevoli modi percorsi e gerarchie nei circuiti neuronali ospitano mille visuali e livelli di lettura, prefigurano il meta. E se la molteplicità è il modo l’anima, il meta ne ha il profumo; suggerisce l’oltre, l’altro, il limite come confine da valicare.

La ricerca di sintesi armoniche, spiragli di orizzonti più vasti, guida le regioni cerebrali più nobili, le orienta verso il bello, e così alimenta l’anima. Perché l’essenza stessa dell’anima, di ciò che ci fa pensare all’anima, altro non è che il bello, l’armonia che suggerisce equilibri sempre nuovi, aneliti e sogni, creatività, libertà.

Sono le parole chiave che portano all’anima: perché non basta soffrire, come sa anche un animale, non basta il batticuore. Non quadra che l’anima sia solo lì nelle viscere e nei gesti spontanei, occorre sentirsi soffrire e gioire, sapere mille sguardi, e godere l’incanto dell’armonia, della sintesi, dell’andar oltre, il profumo dell’infinito.

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Eppure viene da dire: va bene, il cervello fin dove vuoi tu, ma l’anima comincia dove il cervello finisce.

Ma credo che Il problema è che possiamo rinunciare, forse. Dopo millenni di filosofia, a incaponirsi su che cosa è e che cosa sembra, su quanto della realtà perviene all’anima e quanto l’anima sa già di suo, di quanto vero sia ciò che è la fuori e quanto lo sia quello che si agita qui dentro, potremmo alzare bandiera bianca.

Credo però che nell’ultimo secolo troppe novità si siano accumulate, e ancora siano ben lungi dall’essere state digerite, non solo dall’uomo della strada ma neppure dalla Cultura con la “C” maiuscola. Neppure dalla Scienza che è quella che le ha scovate.

Materia, energia, forma. Conoscibilità. Matematica e logica. Spazio, tempo. Infinito. Verità.

Il Novecento ha distrutto tutto. Soprattutto ha distrutto, e pare nessuno se ne sia accorto, i limiti e i confini.

In questo secolo la scienza ha scritto le pagine più rivoluzionarie. Da Gödel, che demolisce l’unicità totalità e coerenza della matematica, a Einstein, che svela l’inconsistenza ontologica di spazio e tempo, l’infinità del limitato, a Popper, che nega valore di verità all’innegabile, basando la scienza sulla confutabilità. Pagine rivoluzionarie perché demoliscono definitivamente il diritto di chiunque a imporre uno sguardo, una lettura, come unica, innegabile, incontestabile.

Questo richiede che si riconosca il nuovo punto di saldatura tra scienza e filosofia: non c’è più frattura tra direttamente conoscibile (oggetto di scienza) e interpretazione (oggetto di filosofia). La fisica relativistica impone una visione del tempo e dello spazio che prescinda dalla loro realtà ontologica e fissità. La antinomia stessa materia−energia è svanita nella concezione che si tratta di due aspetti, tra loro interconvertibili, della stessa “cosa”. Tale visione è al momento l’unica compatibile con i dati sperimentali e risulta pertanto − fino a prova contraria − la VERITA' più avanzata. Questo sottolinea come l’interpretazione sia intrinsecamente legata al dato sperimentale in questa VERITA', perché i dati sperimentali, fuori dall’interpretazione, non dicono nulla. Non dicono nulla perché non riguardano la nostra esperienza quotidiana, bensì tutt’altro: riguardano la conoscenza del mondo e della materia, che non è fatta di dati ma di interpretazioni.

Allo stesso modo, la relatività generale demolisce il concetto di universo infinito e illimitato chiarendo come il campo gravitazionale incurvi lo spazio-tempo (chiarendo?) in modo tale che lo spazio risulta a tutti gli effetti infinito pur potendo essere limitato. Neppure la curvatura dello spazio-tempo ci dice nulla, non ha a che fare con la nostra vita più di quanto ne abbiano i buchi neri, ma riguarda ancora la conoscenza del mondo e delle sue dinamiche, conoscenza che è un quadro interpretativo e non un ammasso di dati.

Ancora, la fisica quantistica rivela che c’è un limite alla misurabilità di quantità fisiche, come la velocità e posizione di particelle elementari. Ma il punto fondamentale è che non solo non è possibile misurare con precisione la posizione e la velocità di una particella, perché non si può costruire uno strumento sufficientemente rapido e preciso. No, questo è vero, ma il punto non è questo. Il punto è che NON SI PUO'; nemmeno con lo strumento ideale, più assolutamente e idealmente preciso, perché una particella NON HA una velocità e una posizione precise, ma ha una velocità tanto più definita quanto meno è definita la sua posizione, e viceversa. Intrinsecamente. Fisicamente. Ineluttabilmente. Indeterminatezza. Un limite alla conoscibilità. Qualcosa di analogo ai misteri della religione, della fede. Anzi ancor più in là, perché non è qualcosa di precluso alla NOSTRA capacità di comprendere, ai limiti della nostra mente umana e della nostra logica, no, è proprio che intrinsecamente NON SI PUO' SAPERE, non si può conoscere, NON ESISTE come misura. O forse significa solo che dovremo smantellare, dopo i nostri concetti di spazio e tempo, e di infinito, anche quello di posizione e velocità. Ancora una volta, la questione non ci tocca, i dati non ci riguardano. Ma la filosofia, la concezione del mondo, della ragione, della conoscibilità del reale dovrebbe risultarne un poco scossa, o no?

E la matematica dei sistemi non lineari, il caos, con la dichiarata impossibilità di prevedere lo sviluppo di un sistema caotico anche se nulla è sottoposto al caso, anche se le regole di ogni cambiamento nel sistema sono precise e perfettamente note. Sistemi causali, deterministici, precisi, di quelli che è possibile descrivere in ogni dettaglio, e che quindi si dovrebbero poter “capire”. Eppure, il loro sviluppo è determinato in modo così sottile e delicato da impercettibili differenze in uno qualsiasi dei parametri che nessuna previsione è attendibile, per quanta sia la cura e la precisione con la quale misuriamo ognuno dei parametri: ed è affascinante come a questo punto sia il principio di indeterminatezza a fregarci, garantendoci che tale precisione non potrà mai essere assoluta. Con buona pace degli operatori di borsa e dei meteorologi. E qui c’è persino una qualche rilevanza per la nostra vita quotidiana, ma ancora una volta il punto più rilevante è nei riguardi della concezione del mondo, della applicabilità del principio di causalità, della conoscibilità...

Forse più travolgente di tutti è la dimostrazione da parte di Gödel che NON PUO' ESISTERE un sistema logico o matematico che sia al tempo stesso completo e coerente. O si applica solo ad un ambito limitato, e può essere coerente, oppure deve ammettere contraddizioni e incoerenze al suo interno, il che per un sistema che ambisca a definirsi “matematico” (quasi sinonimo di “perfetto”) non è certo il massimo della felicità. E che la filosofia faccia i conti anche con questo, e per quanto riguarda la conoscibilità e per la coerenza...

A fronte di questi sconvolgimenti − che più ancora che scientifici sono filosofici − Popper ha tracciato la nuova definizione di scienza e la nuova misura della VERITA'. La verità scientifica non esiste. È un processo di avvicinamento per approssimazione. Una affermazione ha valore scientifico se vi è modo di verificarla (e quindi anche di confutarla) attraverso un approccio sperimentale. E il suo valore di verità è comunque provvisorio, finché un dato sperimentale non risulti in contraddizione e richieda di riesaminarla, in una interpretazione diversa che sappia conciliare e render conto anche del nuovo dato. Verità provvisoria e in movimento. Nulla è DATO a priori, nessun assioma nessun concetto a priori; ogni conoscenza − VERITA' − è di fatto interpretazione, e ciò che distingue le conoscenze − VERITA' − scientifiche da quelle non scientifiche è che le prime sono riconducibili a qualche forma di verifica (e confutazione) sperimentale.

Di fronte a questa rivoluzione occorre stabilire qualche regola del gioco. Qualche regola nuova.

  • C’è senz’altro un ambito della realtà − della fisica e non solo della metafisica − che travalica i limiti della conoscibilità.
  • La scienza non è una collezione di risposte ma un modo di porre le domande, il modo di porle che permetta di verificare (e confutare) le risposte; e soprattutto la scienza è la capacità di INTERPRETARE i dati in modo chiaro preciso e CONFUTABILE.
  • L’ambito di indagine della scienza non è limitato alla natura. Attraverso la fisica, la matematica, la neurobiologia, si possono affrontare molti aspetti finora considerati ambito esclusivo della filosofia: materia, realtà, verità, pensiero, emozioni, affettività, il comportamento umano, etica e estetica.
  • Per affrontare questi ambiti la scienza deve fare tesoro della spregiudicatezza con cui ha saputo demolire concetti “connaturati alla ragione umana” quali tempo spazio infinito e materia.
  • Ogni VERITA' è provvisoria, e ha dignità scientifica solo se si basa su osservazioni sperimentali, meccanismi e processi conosciuti, e sulla loro interpretazione, senza far uso di alcuna assunzione che non possa essere in qualche maniera verificata o confutata.

Per certi versi tutto questo riporta a una scienza più antica e più alta, come raccolta di informazioni e verifica nell’ambito di una elaborazione strettamente filosofica (sapere e capire). Dovrebbe ripensarci chi ha voluto e saputo svuotare di valore e significato la cultura scientifica nella contrapposizione tra una Cultura (umanistico−filosofica), rivolta alla conoscenza della realtà e dell’uomo PER CONOSCERE, e una scienza intesa come conoscenza della realtà per controllarla e modificarla. Una scienza sempre più angustamente ridotta a tecnologia, senza respiro, senza passione, senza poesia.

La scienza ha molto da dire. E anzi il punto di saldatura tra scienza e filosofia è oggi molto sopra il confine classico tra fisica e metafisica. Si è spostato su concetti alti quali spazio tempo infinito conoscibilità struttura della materia e rapporto materia−energia, e sui meccanismi dell’affettività, del comportamento umano, dell’idealità stessa. In più, permane una abitudine a regole diverse: alla filosofia è consentito far ricorso ad assiomi indimostrabili − e inconfutabili − misurandone la VERITA' sulla base della loro necessità logica, di quanto sono avvertiti come INNEGABILI nel profondo dell’anima (come lo spazio, e il tempo, e la materia, forse?); alla scienza sono preclusi gli assiomi, e quei campi della filosofia nei quali ciò che si può studiare non dice nulla. Per tutto il resto permangono certo questioni tabù, sulle quali un approccio scientifico non permette di dir nulla, ma molte domande si possono porre, e molte risposte si possono cercare.

Ma di questo passo il rapporto tra scienza e filosofia si ridisegna in modo curiosamente paradossale: il criterio di VERITA' più solido, coerente e affidabile è appannaggio della scienza − verità provvisoria fino a prova contraria (sempre possibile) e in continua evoluzione, contro una verità assiomatica retta appunto da assiomi, che peraltro ad uno ad uno stanno sbriciolandosi.

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E dunque, liberiamoci di limiti e assiomi e proviamo ad andare oltre, e a cambiare sguardo, o meglio sguardi, a conciliare prospettive diverse.

Nel cervello la percezione e l’interpretazione della realtà. Nel cervello regioni che cristallizzano in schemi di attività neuronale i “concetti” concreti ed astratti, e regioni che, elaborando suoni e raffinati comportamenti fonetici, associano parole ai concetti e costruiscono il sistema simbolico del linguaggio. E aree cerebrali che elaborano spazio, e tempo, e numeri e gerarchie e rapporti complessi, e contribuiscono impressionante potenza alla capacità di manipolazione simbolica dell’informazione. Ancora, la capacità intrinseca di molte regioni corticali di esaminare concomitantemente E in sequenza informazioni multiple e diverse, di percorrerle costruendo interpretazioni complesse e in continua evoluzione. Nel cervello le regioni di elaborazione più elevata, che traducono questa stessa modalità di lavoro (“percorrere” le informazioni) in una “attenzione” che esamina la realtà e se stesso, leggendoli e raccontandoli, e generando così una COSCIENZA di sé e del mondo, che può tradursi in un racconto esplicito, un linguaggio interiore che guida il pensiero. Nel cervello una elaborazione implicita delle emozioni e, grazie al racconto cosciente, la capacità di leggerle e interpretarle e dirle. Infine, una capacità di scelta che non è calcolo, ma valutazione e rivalutazione continua, in cerca di armonie sempre più complesse e complete, sempre più elevate. E una forza che spinge a cercare quest’armonia, il piacere del bello, a generare estetica ed etica.

Che cosa manca?

Passione, impegno, dedizione, fantasia, amore, felicità? Magoni e bisogno di infinito? Qualcosa che vale di più della vita? Che altro?

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La vita, si è detto, è il criterio di organizzazione degli organismi viventi, il modo in cui essi persistono, mantenendo costanti − o evolvendo lentamente − certe loro caratteristiche in una continua interazione con l’ambiente esterno. È un equilibrio dinamico e instabile, che si ricrea in ogni istante grazie a interazioni che lo destabilizzano, è un’apparenza statica di un sistema in cui nulla è statico. È una continua riaffermazione nel negare se stessi. Un proteggersi riaffermandosi continuamente diversi da come si era un istante prima.

La memoria, la nostra storia, il nostro io, si possono descrivere in modo identico: il continuo prodotto di come abbiamo vissuto tutto ciò che ci è successo, che si riafferma nel modo di vivere ogni nuova esperienza e al tempo stesso muta impercettibilmente per i segni che ogni nuova esperienza lascia. Uno sguardo sulla vita (un IO) che non esiste senza una vita da vivere (è impressionante quanto questo scarnifichi un’anima intesa come astrattamente separata dall’IO che vive), uno sguardo sulla vita che si afferma vivendo e continuamente muta riaffermandosi.

La vita dunque si AFFERMA e si SOSTIENE cambiando: siamo fatti di una parte che cerca di SOPRAVVIVERE difendendosi, e di una che cerca di VIVERE, cambiare, crescere, rivolta all’esterno perché senza interagire e cambiare neppure si sopravvive. Fisicamente. E psicologicamente. E affettivamente. Ma per sopravvivere ci si difende, si mettono paletti, barriere, si definisce, si limita.

Che cosa ci spinge a difendere il precario equilibrio che in ogni momento abbiamo saputo rappezzare? e che cosa ci spinge a metterlo a rischio, talvolta a frantumarlo consapevolmente, per andare oltre a esplorare la vita?

Beh, per vivere bisogna pur sopravvivere, e resistere.

Ma sopravvivere non basta. Ci vuol altro...

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Il sistema nervoso centrale fornisce all’animale la capacità non solo di reagire a stimoli ma anche di costruire una rappresentazione complessa dell’organismo stesso, della realtà, e delle loro interazioni. E di orientare il comportamento sulla base di sofisticate valutazioni non solo delle esigenze vegetative ma anche di − meno facilmente descrivibili − forze motivazionali.

Di fronte a questo la BIOLOGIA non basta. Nasce una meta-biologia che la FISICA non descrive, che ha sue regole, forze e dinamiche, che invade il campo dell’immateriale, della conoscenza, di una cibernetica non automatica, capace di anticipazione, di azione finalizzata.

Lo sviluppo impressionante della corteccia cerebrale nell’uomo trascende il banale compito di produrre risposte, anche raffinate, agli stimoli: nella corteccia pullulano innumerevoli interpretazioni della realtà, ognuna nasce e si evolve rielaborando le informazioni che la raggiungono secondo modalità, angolazioni e contesti specifici. Ogni interpretazione riletta e integrata con altre, ma ognuna complessa in sé e per molti versi autonoma, immagine dinamica di un aspetto di sé o del mondo, ognuna nasce cresce evolve come un meta-organismo, dotato di vita propria, seppure confinato nell’immaterialità della rappresentazione formale, astratta.

L’incontro di mille letture plasma i concetti, costruisce una visione molteplice complessa e variegata della realtà (e di sé), fatta di metafore, capace di manipolazione astratta e − nuovo balzo straordinario − di attività simbolica, un linguaggio fatto di suoni e gesti che non imitano, mimano, rappresentano la realtà, come succede per i linguaggi animali, ma che si combinano in un sistema − SIMBOLICO appunto − astratto, nell’ambito del quale assumono significati attribuiti arbitrariamente, che sono diversi nelle diverse lingue: ne nasce uno strumento di inaudita potenza, non per descrivere soltanto ma per indagare nel profondo e capire. Germoglia la coscienza, uno sguardo consapevole di sé e del mondo: sintesi e unificazione di molteplicità.

Così la regolazione del comportamento si fa attenta e delicata, nella variegata interazione di forze motivazionali vegetative, edoniche, socioculturali, e ideali; si profila una chiara e reale possibilità di scelta, il comportamento finalizzato in senso stretto.

Cambia ancora l’ambito, e il linguaggio: non bastano più biologia e cibernetica, si invadono i campi dell’epistemologia, dell’etica, della libertà; si sconfina verso l’anima.

Ogni nuova dimensione obbliga a nuovi sguardi.

Ad ogni balzo occorre una nuova descrizione formale, perché le regole che guidavano i sistemi più semplici, pur continuando a operare sotto-sotto, non sono più quelle rilevanti. Per descrivere e comprendere la dinamica complessiva ora si impongono nuove specifiche necessità, e interazioni, più alte, che in sistemi più semplici non si potevano neppure immaginare.

Da questo impressionante sviluppo della potenza cognitiva, cibernetica e comportamentale del cervello nasce, quasi un effetto collaterale, una inattesa e affascinante mistura di potere interpretativo, emozioni e motivazioni, memoria e desiderio, gioia e dolore, e coscienza del capire e del sentire, magoni e felicità, amore passione e volontà, curiosità e paura, meraviglia e sdegno, ardore e impegno. Una mistura che è un nuovo livello di vita, interiore e superiore, ma non reclusa e esclusa, anzi capace di incidere sulla realtà e sul mondo, e in modo nuovo e diverso, secondo disegni e fini, desideri e ideali.

Da questa mistura di sguardi aneliti e fantasie sboccia un’imprevista nuova dimensione di vita, la necessità di ALTRO, illimitato, nel tempo e nello spazio, di superare i propri limiti, esser fuori di sé, sapersi nell’eterno e nell’infinito...

Un curioso effetto collaterale, per cui è difficile trovare un nome più bello e appropriato di “anima”.

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Linguaggi chiusi, musiche vuote

Perché tanti non capiscono la matematica? perché è un linguaggio che si parla addosso. Puoi applicarlo a tutto, ma è MATEMATICA nel momento in cui riconosci che non è CIO' A CUI l'hai applicato, ma qualcosa di ALTRO, di astratto, di etereo, di impalpabile, di chiuso e a sé stante.

La società del benessere, dei consumi e della cura del corpo della salute della quotidianità, ti insegna a chiudere il tuo orizzonte su te stesso. È notevole che in internet, se ti iscrivi a una “chat”, devi scegliere gli argomenti che ti interessano, e di solito sono una dozzina, cinema, arte, sport... ma non manca mai la “cura del corpo”, un interesse, un momento di incontro!...

È il progresso.

Nessuna disciplina, non solo la matematica, procede oltre un certo limite senza crearsi un linguaggio proprio, autoreferenziale.

Anche la disciplina del benessere ci sta arrivando, costruendo persone che sono linguaggi e musiche che si ripiegano su se stesse, come certe correnti musicali cerebrotiche che trasformano la musica in ragionamento astratto e autoreferenziale, come grammatiche che rigorosamente rimuginano di relazioni tra parole vuote.

Accudisci te stesso!

Non era “conosci”? Altri tempi, ora non serve più.

Salvo poi osservare che la depressione altro non è che avvitarsi nel proprio problema (o problemi), escludendo emozioni che non siano il dolore per le proprie emozioni, e pensieri che non siano tristi riesami dei propri pensieri...

Forse non è poi così strano che uomini attenti ad accudire se stessi, dimenticando il mondo, il dolore degli altri, la voglia di costruire, di esprimersi nell'azione e nell'impegno, vi precipitino tanto facilmente.

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E dunque un comportamento che non è più guidato solo da conoscenza utilità e razionalità, ma pervaso d’altro, d’infinito, di affetti di ideali di sogni, di anima.

La scelta migliore, in assoluto, non può neppure essere fatta a tavolino, attribuendo punteggi specifici ad ogni forza motivazionale secondo un sistema di criteri precisi e fissi, come si potrebbe programmare una strategia commerciale o manageriale. Proprio perché non c’è un solo criterio, o un numero fisso di criteri, che possano guidare in questa valutazione. La scelta migliore, in assoluto, è quella che riesce a conciliare nel modo migliore il massimo numero di criteri, che appare restare valida anche di fronte a cambiamenti di prospettiva, alla mutevolezza nel tempo delle forze che spingono verso l’uno o l’altra ipotesi... La scelta migliore, in assoluto, non c’è, dunque. È diversa per ognuno di noi, e cambia con i nostri bisogni, i nostri affetti, la nostra sensibilità alle esigenze degli altri... e cambia nel tempo, con la nostra storia.

Non è un inno al relativismo, questo: la miglior scelta cui mi riferisco è la migliore in termini utilitaristici, per la pura ricerca del piacere e la fuga dal dolore. La scelta ETICAMENTE ottimale è tutt’altra cosa. Eppure, se nel piacere includiamo le motivazioni sociali e etiche, e nel dolore includiamo la sofferenza degli altri, la scelta “ottimale” diventa molto più simile ad una scelta etica, molto meno variabile e meno sensibile a cambiamenti momentanei di umore, desideri capricciosi, illusioni...

E per arrivare a una tale scelta “ottimale” il criterio guida migliore non può che essere la ricerca di armonia, di un qualche principio che sappia trovare aspetti unificanti, equilibri − per quanto precari e cangianti − e conciliazioni, un filo conduttore che dando un senso a tutto quanto giustifichi le rinunce e valorizzi le conquiste, un principio per definire il quale è difficile trovare un sostantivo più adatto che “bellezza”.

BELLEZZA, sì. Bellezza come possibilità di uno sguardo unificante, che senza rinunciare alla molteplicità delle prospettive sappia dare un senso, un criterio di lettura. Che sia lettura conciliatoria o esasperata, pacata o appassionata, lineare o contraddittoria, beata o dolorosa... uno o l’altro, purché non si finga che i contrasti non esistono, ma li si sappia considerare e comporre, purché il senso non si perda con altre possibili letture...

Bellezza è forse una parola vaga e imprecisa, ognuno la applica in modo diverso a diversi oggetti, eventi, persone, idee. In fondo però, se esiste un criterio del “bello”, in arte come nella vita, esso sta nella sintesi armonica di molteplicità, liscia e tonda o spigolosa e stridente che sia, purché rappresenti e/o permetta una lettura, una appropriazione e interiorizzazione.

E’ curioso che la sensibilità alla bellezza, e il giudizio estetico, siano così variabili, ma il meccanismo che scatena la percezione della bellezza sia lo stesso: veder/avvertire la bellezza di qualcosa dipende dal vedere/avvertire molteplicità (nel gioco di colori, suoni, forme, impressioni, emozioni, idee, sogni) e/o dall’avvertire una forma o qualche tipo di sintesi, di armonia.

Penso che questo sia fortemente legato all’attitudine induista di fronte alla verità: ci sono molte strade verso la verità e tu devi cercare la tua, ma benché le strade siano numerose e diverse, non lo è la verità. Ognuno di noi ha la sua sensibilità, è capace di notare e cogliere dettagli differenti, e relazioni, ma i modi di funzionamento dei nostri cervelli sono gli stessi e quando riusciamo a percepire la armonia sottostante siamo destinati a convergere verso la stessa essenza profonda, e verità. Credo ci muoviamo ad una certa distanza dal “relativismo”...

In questo discorso ancora una volta incontriamo il META, la sua problematicità e il suo fascino. Perché si tratta di risolvere conflitti variegati e cangianti tra forze motivazionali che non possono essere semplicemente sommate-sottratte, o lasciate urtare una contro l’altra per vedere chi vince. Ognuna di queste forze è di per sé in grado di avviare un comportamento, se non adeguatamente contrastata o inibita. Non sono istanze che si rivolgono ad un “centro decisionale” superiore che prende atto di tutto quanto si sta agitando la sotto, fa i suoi conti e, appunto, DECIDE. Gli equilibri vanno spostati rispettando criteri superiori, ma non considerati come esterni, sopra e fuori: nel conflitto devono entrare come forze in lizza anche i criteri (ad esso superiori) della sua stessa soluzione. E dunque la NECESSITA' di sintesi armonica e cangiante, di analisi critica ed estetica del conflitto motivazionale, deve tradursi essa stessa in forza motivazionale, capace di rafforzare e indebolire, orientare e inquadrare le scelte in una strategia complessiva e infine avviare le risposte comportamentali.

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I non-opposti

Il fascino del male. Parrebbe che se il bello − armonia − caratterizza il gesto etico, il male debba essere brutto.

In primo luogo il contrario di BELLO − sublime che rapisce − non è certo il brutto, che può emozionare non poco, ma casomai l’INSULSO.

E il contrario del gesto etico non è il gesto malvagio, che può essere altrettanto difficile, intenso e gustoso. Casomai è il gesto automatico, o insensato.

La scala è di intensità, il bello/brutto è solo una biforcazione. Il sublime però si trova sul ramo del bello, armonia superiore in termini qualitativi, di dimensioni e infiniti.

Così anche l’etica del bene è qualitativamente superiore perché, a pari intensità gratificazione e percezione di potenza e di assoluto, sa invadere di armonia anche socialità, condivisibilità, sorriso abbracci e amore: qualche infinito in più.

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Dunque, giù, nelle regioni profonde dell’encefalo, vi sono neuroni capaci di tradurre stimoli esterni e bisogni interni in impulsi violenti che scatenano attese incontrollabili e gratificazioni irrinunciabili. Sono la base neuronale di quelle che chiamiamo forze motivazionali, alcune fisiologiche, vegetative, altre emotive, affettive. Ma le massicce proiezioni che dalla corteccia incombono su queste regioni giustificano l’osservazione che altrettanto forti nel guidare il nostro comportamento siano le forze motivazionali, attese e gratificazioni legate all’apprezzamento sociale. E a guardar bene, non vi è nulla di strano che un analogo meccanismo trasformi in un bisogno fondamentale, avvertito profondamente come non meno essenziale di quello di cibo, acqua, calore e amore, anche la necessità di valutare, giudicare, agire, e capire e apprezzare, e cercare sintesi armonia e amore.

Qui, su questo punto. i dati ancora non ci sono.

Non sono stati descritti i “neuroni del bello”. Non sono descritte le vie nervose che dalle regioni associative multimodali della corteccia, e dalle regioni frontali che elaborano simulano e confrontano i comportamenti, le loro difficoltà e le loro conseguenze, scendono ad attivare i “centri del piacere”, giù nel mesencefalo (VTA) e nei nuclei della base limbici (accumbens), e risalgono verso la corteccia limbica a generare il conseguente vissuto emotivo. Non sono stati individuati i neuroni e i percorsi, ma difficilmente si può negare che esista un piacere affettivo, un piacere estetico (languore di intensità, di fervido equilibrio, di infinito), un piacere etico (forse questa è la essenza fondamentale dell’imperativo categorico Kantiano), un piacere della scoperta, della meraviglia e della comprensione, della soluzione di problemi e conflitti − piaceri veri, profondi, “fisici”, ancora una volta inaggettivabili... forme di piacere, e basta.

E dunque non resta che attendere che i neuroni e le vie nervose vengano identificati − o cercare di sopravvivere senza curarsene troppo per qualche anno o decennio ancora, − ma intanto prendere atto che ai sistemi limbici che elaborano la colorazione emotiva del vissuto, alle regioni profonde che scatenano le risposte di gratificazione, ai neuroni “dell’attesa” e a quelli “del piacere”, e dunque alla circuiteria EDONICA profonda, viscerale e corporea (pulsionale, forse, freudianamente), DEVE arrivare come segnalazione positiva, dalle aree di integrazione multimodale e di elaborazione cognitiva della corteccia, il riconoscimento di armonie, la conciliazione di conflitti, la conquista di uno sguardo unificante, il riscontro della bellezza...

E se meraviglia, comprensione, bellezza, armonia, conciliazione di conflitti sono neurologicamente in grado di produrre PIACERE, questo chiude il cerchio, salda e completa la interazione e il dialogo incrociato tra strutture edoniche profonde e attività cognitiva, attraverso il crocevia (il “limbo”) della corteccia limbica, capace da un lato di avvertire la valenza edonica e motivazionale dell’elaborazione cognitiva, e tradurla in una colorazione emotiva e affettiva, dall’altro di analizzare secondo una logica complessa pulsioni edoniche ed emozioni, traducendole in un “vissuto emotivo” che possa essere elaborato cognitivamente e coscientemente (razionalmente, per chi ci riesce...) da altre regioni della corteccia.

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Evoluzione

E se l’evoluzione avesse un senso, una direttrice dominante?

Va alla cieca, ogni strada è buona pur di produrre e moltiplicare vita, che permette sempre nuovi modi di sfruttare l’energia disponibile. Non abbandona le strade alternative, solo le chiude quando non possono più competere, ma nei limiti del possibile e dell’accettabile continua a tenere aperte tutte le tattiche: la “biodiversità”, le mille e mille soluzioni diverse per ogni problema. Ma in questa ricerca talora la natura si imbatte in “salti di qualità”, in soluzioni nuove sostanzialmente più complesse, che permettono maggiore malleabilità, e molteplicità di strategie da parte di uno stesso organismo.

Alla molteplicità si affianca la complessità: l’evoluzione non abbandona le soluzioni semplici, ma oltre al moltiplicarle si mostra capace di affiancarvi soluzioni via via più complesse, che sconfinano dalla problematica della mera sopravvivenza e iniziano a modificare il mondo, e poi a rappresentarlo, e poi a interpretarlo, e comprenderlo, e guardarsi, e comprendersi.

È un disegno intelligente?

Chissà, ma a spiegarlo basta LA FORZA.

L’energia bloccata nelle molecole chimiche, nella materia. Che grazie agli esseri viventi può essere liberata in entropia. L’energia del sole, che le piante sanno racchiudere in molecole preziose come il glucosio per dar vita a tutti gli animali, energia che da sola scalderebbe soltanto la Terra, a poco a poco, senza aver la forza di spaccare − come sanno fare gli esseri viventi − molecole che come complicatissimi castelli di carta stanno in equilibrio, senza liberare l’energia chimica che racchiudono, come bacini idroelettrici che, se la diga si crepasse, rovescerebbero felici miliardi di tonnellate d’acqua a valle, decimando e travolgendo in un delirio di distruzione, disordine, entropia.

Basta la FORZA. La forza dell’entropia. La forza della vita.

E ogni nuovo organismo, che abbia sviluppato una nuova capacità di liberare l’energia bloccata in qualche composto chimico, nel carbone, nel petrolio, nelle molecole, nel nucleo dell’uranio ha dalla sua, a sostenerne la sopravvivenza la crescita la moltiplicazione, la inesauribile sete di energia dell’entropia dell’universo.

Questo basta a confermare preservare e consolidare ogni passo che l’evoluzione riesca a compiere, nei suoi ciechi brancolamenti di mutazioni e combinazioni genetiche, verso sistemi più complessi, capaci di trovare soluzioni nuove di sopravvivenza, nuove fonti di energia, nuovi modi di usarla e disperderla. Almeno - mettiamoci un po’ di pessimismo cosmico - finché ce n’è.

E se in un cervello si riesce a generare una “pulsione per il bello”, il modo di trasformare in forza motivazionale la percezione di armonia, di sintesi della complessità, questo è senz’altro un regalo che la signore Entropia non può non accettare, dalla signorina Evoluzione, una promessa di soluzioni sempre nuove, di sempre più numerose vie per approvvigionare di energia il Disordine Universale.

Ma se la forza universale è l’entropia, la sete di disordine, l’ambizione autodistruttiva dell’energia bloccata, e se la complessità e la molteplicità sono le direttrici verso le quali − a macchia d’olio, certo, non diritta come un treno − avanza l’evoluzione...

Se questa è la direzione − complessità e molteplicità, soluzioni che si allontanano dal mero affrontare praticamente il problema e esplorano implicazioni e colori e atmosfere e armonie più alte − è chiaro che l’uomo non è il punto d’arrivo. L’evoluzione ha già compiuto almeno un altro passo: la donna...

Sulle differenze tra uomo e donna analisi storiche, esplorazioni di mitologie e inconsci, studi neuroanatomici e test psicoattitudinali hanno dato luogo a tutte le teorie possibili, affascinanti e più o meno umilianti o esaltanti per l'uno o l'altro genere.

I dati incontestabili che hanno parvenza scientifica sono essenzialmente i seguenti:

Nella media (nella MEDIA!!!) la donna ha una maggior capacità di raccordare il vissuto emotivo e l'attività razionale, una maggiore maestria verbale, una maggiore attenzione per i dettagli, e per le espressioni corporee del vissuto emotivo: di conseguenza analizza ed esprime il vissuto EMOTIVO con maggior facilità ed ha una maggior capacità in generale di CONCILIARE approcci, aspetti, punti di vista e criteri diversi in una visione sfaccettata, molteplice e intrinsecamente più profonda e malleabile della realtà (del mondo, di sé, dell'altro, dei rapporti).

Nella media (nella MEDIA!!!) l'uomo ha una maggior capacità di astrazione e di generalizzazione, procede più agevolmente per via TEORICA e per principi generali, e anche nell'attività pratica tende a farsi condurre da criteri guida e REGOLE più precise. Teorizza anche il vissuto emotivo, proprio e altrui, più che avvertirlo e comunicarlo; affronta ogni problematica con lo specifico approccio che ritiene più adeguato (e che non necessariamente lo è) e in conclusione ha maggior difficoltà a conciliare una molteplicità di compiti e di ambiti di vita.

Considerando che queste caratteristiche hanno substrati riconoscibili nelle differenze anatomiche e funzionali delle varie aree cerebrali nei due sessi, in parte congenite e in parte conseguenti al diverso quadro ormonale, è divertente avanzare una ipotesi interpretativa (causale-evolutiva).

Nei mammiferi la preservazione della specie impone compiti diversi al maschio e alla femmina:

la femmina in generale non è sempre disponibile per l'accoppiamento, e in genere non ha problemi a trovare un maschio a tale fine; la procreazione è un compito rilevante e esigente

il maschio è sempre disponibile per l'accoppiamento e per propagare i suoi geni deve competere con altri maschi; la procreazione non è in sé compito difficile o esigente, casomai l’accoppiamento!

la femmina propaga i suoi geni con successo se porta a termine la gravidanza e sa curare e proteggere la prole fino alla autosufficienza: questo richiede attenzione a segnali di pericolo e sicurezza, attenzione alla adeguatezza dell'ambiente e capacità di curarsi di altri soggetti (la prole) come di se stessa

il maschio propaga i suoi geni con successo se sa adattarsi al gioco della selezione da parte della femmina (canta, corre, combatte, danza con le corna meglio degli altri) e se sa difendere la femmina gravida e la prole da altri maschi: il suo compito è tendenzialmente combattere e competere, con la forza da un lato, con l'abilità nel seguire certe regole nell'altro.

Come fareste il cervello di un maschio?

  • competitivo
  • capace di introiettare le regole del gioco e muoversi in accordo con esse
  • capace in ogni istante di dimenticare tutto il resto e dedicarsi al combattimento o alla competizione, seguendo le regole acquisite
  • una cosa alla volta!

Come fareste il cervello di una femmina?

  • attento
  • più interessato a cogliere ogni segnale che a teorizzare
  • capace di comprendere le necessità del cucciolo - e di conseguenza degli altri in genere - da ogni dettaglio del suo comportamento
  • interessato a costruire un microambiente adatto a sé e alla prole più che a cambiare il mondo

Se ci aggiungete l'intelligenza, vi vien fuori un uomo capace di teorizzare su tutto, combattere e realizzare grandi imprese, ma non di pensare a due cose nello stesso tempo.

E una donna che capisce cosa le succede intorno (e nell'anima del suo uomo) e si lamenta che lui non capisca lei.

Forse queste differenze aiutano a rendere più bello cercare il passo per danzare insieme: si può duettare con due chitarre, o due trombe, o due batterie, ma forse con strumenti diversi è più divertente e si suona meglio insieme - la musica e la vita. E forse non è così strano che in questo gioco la donna sia più attenta e maestra, perché avverte meglio la musica dell’anima, sa rinunciare a spiegarla − e a fraintenderla! − quando non serve, e sa seguirla e viverla e spanderla intorno.

Forse per questa intesa occorrono gli estrogeni. Forse sono i due cromosomi X che fin da piccoli si parlano, comunicano, si capiscono, mentre quello di noi uomini, da solo con l’Y monco, si parla addosso e si istupidisce. Sempre molteplicità...

Poi capitano Gandhi, e Einstein e Leopardi, o la Tatcher e Coldol(c!)eeza Rice, e pubbliche amministratrici che amano alzar la voce e imitare il decisionismo di chi dispensa riforme che tengono conto solo dell'ultimo aspetto che è stato fatto notare... e non ci si capisce più nulla.

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Si è parlato di elaborazione sensoriale, e si è sottolineato come tale elaborazione proceda in parallelo: ogni gruppo di neuroni incaricato o di riconoscere la presenza di specifici elementi, relazioni, rapporti, o di percorrere immagini suoni situazioni riconoscendo successioni e andamenti temporali a loro volta come elementi e relazioni significative.

L’INTERPRETAZIONE dell’informazione sensoriale segue le stesse modalità: centri di elaborazione più elevati esaminano simultaneamente questa mole di dati (che non sono più stimoli esterni, ma elementi, relazioni, successioni riconosciute), e al tempo stesso la percorrono, spostando il fuoco ora su in insieme di dati ora sull’altro.

Ancora, le regioni “multimodali” eseguono un’analisi simile sulla combinazione di questi risultati di elaborazione delle immagini, dei suoni, di odori, sapori, sensazioni somatiche e viscerali, emozioni: e ancora i dati vengono combinati, a riconoscere oggetti e concetti, relazioni astratte, categorie interpretative (unità−molteplicità, causa−effetto, numerosità, ordine, gerarchie)... ma anche percorsi, soffermandosi ora su un aspetto ora sull’altro, ora su una possibile relazione ora sull’altra.

Questa attività delle regioni corticali multimodali, che nel suo funzionamento riflette il modo di operare delle aree più semplici − analisi sintetica e “navigazione” tra le informazioni − trasforma l’esame di sensazioni interne ed esterne in una narrazione, in un RACCONTO, che assume i connotati della conoscenza COSCIENTE del mondo e di sé. Conoscenza che non è quadro statico né descrizione sequenziale ordinata: non è discorso che procede in linea retta, ma intreccio di percorsi logici sequenziali con illuminazioni, intuizioni, interpretazioni evocative, che producono deviazioni, ritorni e riesami, cambi di prospettiva e RILETTURE.

E questo è anche, come abbiamo visto, il modo di procedere del pensiero, e dei conflitti motivazionali.

Questo racconto interiore, nelle sue peregrinazioni, approda talora a visioni d’insieme che conciliano molte letture, disegnano un percorso logico ed emotivo che è possibile ripetere senza incappare in contraddizioni stridenti. E quando questo succede − che si stia cercando la soluzione a un problema, o valutando un dilemma etico, o semplicemente fantasticando − si verifica come un alleggerimento della tensione, un vissuto di benessere e di scoperta, una sensazione di piacere in senso stretto.

Grazie alla potenza e versatilità del linguaggio, questo è anche il modo di procedere del pensiero verbale, e della formazione consapevole e verbalizzabile di scelte e strategie comportamentali.

Questo straordinario potere del linguaggio ne fa quasi una entità autonoma capace di vita propria. Frasi, e anche singole parole, al momento giusto, dette nel modo giusto, talora riescono a cogliere e comunicare questo stesso piacere di armonia molteplice, di conciliazione e saldatura unificante di molte letture. È quando il significato, e il ritmo delle parole e la musica, e tutto ciò che il loro suono evoca, e le immagini − e le altre parole − che esse richiamano per assonanza o vicinanza semantica, e i ricordi che destano con le emozioni ad essi legate... quando tutto ciò si intreccia e combacia, dalla banale giustapposizione di caratteri uno a fianco all’altro nasce la poesia, che non parla più alla ragione soltanto, ma all’anima. A quella parte di noi che riconosce − o crede di riconoscere, − o che comunque va in cerca non del significato ma del SENSO delle cose, di ciò che le giustifica e dà loro valore, che le traspone in una dimensione di infinito e assoluto. Quella parte di noi che si emoziona per la BELLEZZA, in qualunque forma si presenti.

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Parola

Perché la PAROLA è rappresentazione, ma anche descrizione interpretazione spiegazione comprensione, e comunicazione espressione domanda risposta, e compiacenza autoaffermazione e pensiero, ed è sogno e gesto e azione ...

La parola ci rapporta al mondo − descrive, interpreta, deforma travisa e immagina. Lo colora di dolore e di gioia. E ci rapporta a noi stessi − ci scopre racconta e sogna, ci permette di esprimerci immaginarci proporci negarci amarci odiarci perderci...

La parola è un giocattolo da guardare esplorare scoprire, o da manipolare senza scopo senza motivo. Si combina come i mattoncini del lego, sì per dar forma a un’idea, ma anche per gioco, senza un piano, per trovarci magari a dar vita ad un sogno che neanche avevamo sognato.

La parola è pietra preziosa, metallo nobile o volgare, legno carta chiodi rottami e rifiuti.
E’ materia per gioielli raffinati, macchine ingegnose e meccanismi perfetti; per congegni inutili e belli, equilibri improbabili di forme e colori, metafore di oggetti di gesti di sensazioni; e per inezie inutili e leggere che aiutano lo sguardo a spiccare il volo.

La parola è bronzo fuso che trasforma il vuoto di concetti astratti, di simulacri immateriali, nella realtà dura e pesante, compatta e innegabile della pietra.

La parola è una carie profonda che sa subdolamente corrodere svuotare uccidere tesori e valori, senza intaccarne lo smalto brillante e fasullo.

La parola è fuoco che trasforma oggetti, ostacoli, rifugi, e sicurezze in lievi volute di fumo colorato.

La parola è fuoco che sa neutralizzare, ma anche temprare la lama più affilata.

La parola è un cataplasma tiepido e morbido che copre piaghe fresche, che bruciano
e piaghe antiche che premono, pulsano, rodono.
E lenisce.
Forse, cura.

La parola è magia che dà senso a ciò che tocca, e consistenza, e peso, e realtà.
Ma sa togliere significato, valore, vita.

La parola è un forcipe che sa coagulare dal profondo dell’anima bubboni sfuggenti
e sbatterli vivi e sanguinanti sul tavolo operatorio,
perché possiamo vederli, combatterli, accettarli.

La parola è una lama affilata per dissezionare.
La parola è un frammento di sogno per indovinare e per narrare.
La parola è un velo istoriato per trasfigurare e giocare. Un velo istoriato e colorato che mostra ciò che vuole, e nasconde o lascia vedere, e accosta immagini contrastanti e compone dissonanze e raccorda conflitti − e angosce e fantasmi e paure − in un sorriso.

La parola è uno splendido ambito di vita.
Superiore, sì, perché libero.
Permette gioco e ricerca, passione e scoperta, sogno e lavoro, fantasia e azione, progetto e gioia.
Ma la parola è anche mezzo. E allora non si è più soli.
Si è in tre: lei, tu che parli, e chi ascolta.
Ma il suo splendido potere di seguirti e proteggerti e rassicurarti, e al tempo stesso agitarti e schiudere orizzonti inattesi, si perde facilmente se non c'è comunanza di sentire, di emozioni attese desideri atteggiamenti. E di codifiche. e sottintesi. Perché senza questo è difficile − impossibile? − domare la parola, forzarla a esser mezzo mantenendo intatti fascino e potenza.

Ed è triste che forse la cosa più bella, travolgente, del linguaggio, della lingua, della “parole”, la possibilità che la parola si sfaccetti, sviluppi, intrichi e arricchisca fino ad assorbire un’anima, e mostrarla rilucendone e avvolgendoci nell’emozione di cui si è impadronita, questa possibilità siano sempre meno i poeti a sfruttarla, per guidarci l’anima fuori dai crucci e dai guai di tutti i giorni verso spazi più ampi e orizzonti più intensi, che valga la pena di scoprire, e gioie più dolci e dolori più atroci, che valga la pena di provare.

Siano sempre meno i poeti, e sempre più i commercianti di sogni. Quelli che sanno, con l’ausilio dei grandi strumenti della comunicazione, iniettare nella parola, nel logo, il pensiero l’immagine di uno stile di vita, e imporre prodotti come implicita necessità per poter raggiungere il sogno che ci viene presentato. E dall’altra parte una società di creduloni, educati a credere nei sogni, e soprattutto nel fatto che i sogni si possano COMPRARE, un pezzettino alla volta...

E non è che non vogliamo più parole, per carità!

Ne vogliamo, belle, ricche, succose, aromatiche e spesse, pesanti, profonde, emozionanti.

Ma che ci aiutino anche a trovare davvero ciò che contengono, e non si secchino al sole, evaporando come meduse dagli splendidi colori, di cui resta solo uno sputo informe, e lasciando solo il coagulo delle lettere vuote che le compongono...

La parola è un legame, il legame più forte
Per le cose cui teniamo vogliamo un NOME − un nome proprio − perché un NOME le fa nostre e le fa reali e integre dentro e fuori di noi.
Meglio non dare un NOME a ciò che ci fa paura, non usarlo per ciò che ci mette a disagio,
per ciò cui sappiamo meglio far fronte finché un’aura di incertezza ci permette di sottrarci,
sfuggirlo respingerlo allontanarlo nel rarefatto spazio dei fantasmi, dei sogni, dei desideri,
dal quale un NOME lo richiamerebbe qui, accanto e dentro di noi.

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