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Fisiologia dell’anima - o, se preferisci, - neuroni & anima
Riccardo Fesce - tutti i diritti riservati (editori e agenti interessati, inviare una mail)
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MOTIVAZIONE − il bisogno e il piacere

Dopo tutto questo parlare di vagheggiamenti della mente in cerca della miglior scelta, a me viene da domandarmi “ma perché mai il nostro cervello dovrebbe sottoporsi a questo pesante compito di cambiare continuamente prospettiva, esaminare le cose da mille diverse angolazioni, provare a considerare tutti gli aspetti?”, che cosa mai lo spinge a non accontentarsi di una sola motivazione sufficientemente grande...

La voglia della nutella, per esempio. Per carità, si potrebbero fare esempi ben più gravi e pregnanti di nobili scelte, ma va bene anche questo: perché uno quando ne ha voglia non se la prende, così, semplicemente, perché uno deve mettersi a rimuginare se non si debbano considerare anche altri aspetti, calorie, zucchero, autocontrollo, la fame nel mondo...

Si potrebbe pensare che questo meccanismo del dubbio che abbiamo in dotazione, questo riconsiderare, aiuti nel fare la scelta migliore. A me questa pare una visione un po’ ottimistica: il nostro modo di fare le scelte non è il migliore, e comunque certo non il più efficiente. Il modo più efficiente mi sembra debba essere quello di scegliere gli aspetti rilevanti, soppesarli tutti insieme, e decidere, piuttosto che continuare a navigare tra diverse valutazioni e angolazioni.

Dal punto di vista fisiologico, la questione si traduce in due quesiti: che cosa spinge il nostro cervello a seguire questa procedure e qual è il vantaggio di tutto ciò. La prima è una domanda malposta. Abbiamo visto che il cervello lavora proprio in questo modo, in generale, non c’è nessun bisogno di “spingerlo” in quella direzione. I dati sensoriali sono analizzati così dalle aree associative unimodali, che navigano nella massa di informazioni in arrivo focalizzando ora l’uno ora l’altro aspetto, combinandoli in vari modi e sequenze, cambiando prospettiva e confrontando diverse interpretazioni. Ma questo è anche il modo in cui operano le regioni multimodali, quel variegato aggirarsi che genera consapevolezza e coscienza. Beh, nulla di strano che anche le aree di controllo motivazionale usino lo stesso approccio. C’è una differenza però tra i processi cognitivi e l’elaborazione motivazionale: i primi in teoria possono andare avanti all’infinito − che continuino a sbocciare nuove interpretazioni o che il cervello si avviti senza speranza sulle stesse idee. L’elaborazione motivazionale invece deve prima o poi convergere su una scelta. Quindi, se anche questo fosse il modo migliore di esplorare la realtà, potrebbe comunque non essere il massimo per operare una scelta. In realtà non è per nulla piacevole continuare a rimettere le cose in discussione, nell’incertezza: se la speculazione cognitiva può anche essere un gioco divertente e piacevole, mettere fine al dubbio, almeno di fronte alla necessità di agire, è sollievo non da poco.

Dato che l’apprendimento comportamentale è fortemente influenzato − se non totalmente regolato − dalla forza motivazionale di piacere/dolore, la continua ricerca di possibilità alternative e sintesi migliori, più coerenti, complessive, equilibrate, il continuo riesame delle scelte comportamentali (ma se, e se invece...), che rimanda il sollievo della scelta, deve essere rinforzato da qualche tipo di gratificazione, una forza motivazionale capace di contrastare sia il risultato atteso dal comportamento appropriato, sia la stessa impazienza di uscire dal dubbio, dall’incertezza. Deve esserci una capacità, in queste regioni che ci fanno “perdere” tempo e energie nell’arrovellarci, che caricano ogni singola scelta di dubbi e riconsiderazioni e revisioni, in nome della ricerca e scoperta di equilibri più complessi e armonie più piene; deve esserci la capacità di attivare centri profondi legati al piacere, capaci di produrre una sensazione diffusa di benessere. In realtà ogni intuizione, scoperta, comprensione, ogni nuova prospettiva unificante, e il ritrovare armonie cercate o insperate, tutto questo genera lo stesso tipo di piacere di un sorriso, un abbraccio, un gesto di intesa, l’apprezzamento sociale, il successo... I trucco che il cervello ha realizzato per spingerci a cercare nuove soluzioni, e non esser mai soddisfatti m cercare sempre qualcosa di meglio, è che riusciamo a PROVAR PIACERE nella novità, nella bellezza, nell’armonia.

Proprio mentre rileggo queste note esce su Neuron un lavoro che mostra l’attivazione dello striato ventrale (quel nucleo accumbens che scarica in attesa di gratificazioni e per dichiarare il piacere) da parte di stimoli nuovi, semplicemente perché nuovi. E dico poco... “Fatti non foste a viver come bruti − ce l’avete nell’accumbens questa spinta, testoni! − ma per seguir virtute e canoscenza”.

Dunque ciò che ci spinge a cercare sempre una scelta migliore sembrano essere due aspetti diversi: il modo generale di operare della corteccia, da un lato, e dall’altro il PIACERE di ricercare una analisi più complessiva, una sintesi più alta, e il piacere di trovarla, il piacere dell’armonia.

Ma allora, la domanda diventa perché mai l’uomo deve aver sviluppato la capacità di provare piacere per l’armonia, per la conciliazione sintetica di dati incoerenti?

Beh, una volta che hai la capacità (leggasi: numero sufficiente di neuroni) per interpretare gli stessi dati in molti modi, e di trovare diverse soluzioni per lo stesso problema, offri alla natura la meravigliosa possibilità di perseguire il suo obiettivo di moltiplicare le strategie di sopravvivenza in un solo organismo... E perché allora la natura non dovrebbe trasformare questa potenzialità in realtà? non sarebbe di alcuna utilità essere in grado di offrire tante soluzioni allo stesso problema, molte diverse strategie, se uno non fosse in qualche modo spinto a trovare una nuova strada dopo averne trovato una sufficientemente buona. E dunque ci deve essere un premio, una gratificazione, se riesci a sospendere la scelta per trovare una soluzione migliore; una gratificazione che possa competere con la possibile utilità, gratificazione o sollievo dell’accelerare la scelta.

Comunque, anche se questa attitudine speculativa può costituire un vantaggio evolutivo, perché mai seguiamo quella procedura così goffa? In realtà sembra che di fronte ad una questione impegnativa non siamo capaci di considerare simultaneamente tutti gli aspetti; pare che usiamo un riflettore che può solo illuminare delle porzioni della realtà che dobbiamo esaminare, e non possiamo che muovere intorno il riflettore, cambiando angolazioni e giudizi, nella speranza che prima o poi avremo esplorato tutto ciò che va considerato. Beh, non è improbabile che il nostro meraviglioso cervello, con tutta la sua potenza computazionale, sia molto più abile nello smantellare la realtà esaminando sottosistemi che nel rimettere tutto insieme: ed è apparentemente vero che la mente umana non può “calcolare” (interpretare, spiegare) sistemi e processi nei quali interagiscono più di un certo numero (sette?) di fattori indipendenti. Sembra che abbiamo fatto un buon lavoro a costruire i computer per farsi carico di questo...

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Neurofisiologia della motivazione

In assenza di stimoli dall’esterno, molti sistemi “sensoriali” sono comunque attivi:

  • sistemi propriocettivi, che rilevano lunghezza movimento e sforzo dei muscoli, e posizione delle articolazioni
  • sistemi enterocettivi, che rilevano riempimento e tensione dei visceri, pressione arteriosa e venosa, pH (acidità) del plasma, concentrazioni degli elettroliti, saturazione d’ossigeno e di anidride carbonica nel plasma, glicemia e quant’altro può avere rilevanza per la sopravvivenza dell’organismo
  • sistemi termocettivi, che rilevano la temperatura della cute e quella interna soprattuto nell’encefalo

Tutte queste informazioni vengono elaborate e integrate a vari livelli nel tronco encefalico (il prolungamento del midollo all’interno del cranio) da circuiti e centri di controllo capaci di determinare risposte specifiche − come un aumento dell’attività respiratoria se si squilibra il rapporto ossigeno / anidride carbonica , o un aumento della attività cardiaca e vasocostrizione se la pressione arteriosa diminuisce... − e che a loro volta inviano i risultati del loro lavoro di controllo a centri più elevati. In cima a questa organizzazione gerarchica c’è l’ipotalamo, una struttura posizionata in centro alla base dell’encefalo; l’ipotalamo concilia e regola tutte queste funzioni di controllo vegetativo, coordinando risposte ormonali (grazie al controllo diretto della ghiandola pituitaria, che gli sta subito sotto) e nervose: produce le necessarie attivazioni per ristabilire la pressione se questa risulta alterata, regola l’attività renale se risultano alterati il volume del plasma o la sua composizione, regola la temperatura producendo vasocostrizione per evitare la dispersione di calore, e aumento del metabolismo basale e brividi per produrre calore, al freddo, oppure vasodilatazione e sudorazione al caldo, interviene sulla regolazione della respirazione se risultano alterati il pH o le saturazioni di ossigeno e/o anidride carbonica....

Va bene, meraviglioso. Ma è così ovvio che tutto questo non basta!...

Non basta neppure per sopravvivere.

Se fa freddo, si ha un bel vasocostringere, e rabbrividire, ma se non ci si mette qualcosa addosso o ci si ripara in un luogo o ambiente più caldo si finisce per morire assiderati.

Se la glicemia si abbassa si ha un bel dar fondo alle riserve di glucosio del fegato, e eventualmente bruciare qualche grasso in più, o persino le preziose proteine dei muscoli, ma se non si mangia si finisce pelle e ossa...

E se manca acqua si può certo non urinare, e non sudare, ma o si beve o si muore.

Anche per la pura e semplice sopravvivenza vegetativa occorre mettere in atto comportamenti attivi − vestirsi, muoversi, cercare cibo e mangiare, cercare acqua e bere...

Questi comportamenti devono essere avviati dal cervello, dalla corteccia. Oppure occorre qualcuno che lo faccia per noi, coprendoci, nutrendoci e idratandoci per via endovenosa...

Le regioni della corteccia che avviano i movimenti (aree motorie primarie, nella parte posteriore dei lobi frontali) sono però aree di “uscita” dell’informazione dal cervello, non “decidono” loro che cosa fare, sono solo raffinati esecutori.

La messa in atto di un comportamento richiede l’attivazione di regioni alla base dei lobi frontali anteriori, in regioni vicine alla linea mediana; regioni che si possono considerare i promotori di ogni movimento, quelli che decidono realmente, tra i mille movimenti e comportamenti possibili, quali attuare. Un modo molto istruttivo, per comprendere il ruolo delle varie regioni corticali nelle varie funzioni, è considerare come le varie funzioni risultino alterate in presenza di lesioni localizzate (traumatiche, tumorali, vascolari) a specifiche regioni della corteccia. E forse la funzione più informativa è il linguaggio, che può essere alterato in mille modi (aspetti cognitivi, logici, affettivi, sintattici, motori e motivazionali). Una lesione di queste regioni “prefrontali basali mediali” produce un afasia (disturbo del linguaggio) quasi totale, con caratteristiche disarmanti, essenzialmente un mutismo, dovuto al fatto che il soggetto non ha alcuna spinta, alcuna motivazione a parlare. Non che non sappia o non possa. Potrebbe parlare correttamente, ma solo in risposta ad uno stimolo particolarmente forte.

Queste regioni di “avvio” dei comportamenti non devono programmare i movimenti nei dettagli, si limitano ad attivare le appropriate aree − sempre nel lobo frontale, le aree premotorie − che elaborano e programmano i movimenti, integrandoli su livelli di complessità molto diversi − nelle diverse regioni − e su scale temporali che vanno dai secondi agli anni.

Non ci interessa qui il dettaglio di come poi le aree premotorie traducano questi programmi in specifici movimenti (abbiamo visto altrove come si servano anche di cervelletto e nuclei della base per controllare la correttezza dei movimenti, per produrre comportamenti appresi come “automatici” e per garantire fluidità e armonicità di sequenze complesse di movimenti).

Ciò che ci interessa è andare ancora indietro: queste regioni “avviano” i comportamenti, “decidono” SE e CHE fare. Ma chi o che cosa, a sua volta, le muove, le spinge, le orienta nella scelta?

Alcuni aspetti di questo processo sono molto chiari, altri meno.

Una struttura di fondamentale importanza in questo gioco è il nucleo accumbens. Questa struttura, vicina ai nuclei della base (per certi versi si considera nel faccia parte) contiene, tra le altre, due popolazioni di neuroni con funzione molto precisa.

Una delle popolazioni scarica ogni volta che vi è una situazione di “disagio” e si presenta la possibilità di risolvere questo “disagio”, o in generale la possibilità di ottenere una gratificazione (interrompere un fastidio o provare piacere). Potremmo definirli neuroni “anticipatori” o “di attesa della gratificazione”. Precisiamo meglio che cosa si intende per “disagio”. Una situazione esemplare è quando l’ipotalamo riscontra uno squilibrio vegetativo che richiede la messa in atto di un comportamento (ad esempio, bere) − specifici neuroni di questa popolazione del nucleo accumbens scaricano se l’ipotalamo segnala l’esigenza di bere e il cervello ha riconosciuto la possibilità di farlo (c’è acqua in vista, magari un bel bicchiere di acqua gelata...): il risultato è una stimolazione molto intensa dei centri che “avviano” i comportamenti e in generale la messa in atto del comportamento richiesto. È facile evitare di bere, si può farlo anche quando la sete diviene cocente, ma se in queste condizioni ci si presenta un bicchiere d’acqua diventa davvero difficile resistere... Un esempio meno poetico ma forse ancor più convincente è quando la vescica, strapiena, chiede attenzione: quando finalmente si arriva al bagno il bisogno centuplica, e se sopravviene un impedimento proprio all’ultimo minuto potrebbe anche succedere uno spiacevole incidente...

L’utilità di neuroni che si comportino così è evidente: è inutile chiedere la messa in atto di un comportamento che produca una specifica gratificazione se la possibilità di ottenere quella gratificazione non c’è... Molto meglio occuparsi d’altro, e rafforzare i comportamenti che puntano verso traguardi raggiungibili. Che poi noi siamo capaci di perderci dietro a sogni irrealizzabili, anziché seguire una linea di comportamento così lineare e ragionevole, non è colpa della circuiteria dell’accumbens, ma della nostra imperfetta capacità di addestrarlo...

L’altra popolazione di neuroni dell’accumbens scarica quando la situazione di disagio si risolve. Questo da un lato produce una indiscutibile sensazione di PIACERE, piacere in senso stretto, senza aggettivi. Ma contemporaneamente “rinforza” il comportamento, stabilizzando le connessioni sinaptiche che lo hanno prodotto e rendendolo più facile e facilmente perseguibile in futuro. Questi si potrebbero definire neuroni “del piacere”. Le vie capaci di attivare questi neuroni sono dette vie della gratificazione, o del “reward”.

È opportuno chiarire che non si tratta di popolazioni omogenee, che scaricano in risposta alla presentazione di qualunque situazione che possa risolvere un disagio, oppure alla risoluzione del disagio stesso: vi sono neuroni specificamente dedicati ad ogni possibile “disagio”, la cui attivazione segnala specificamente la necessità di mettere in atto un preciso comportamento, ovvero rinforza quel preciso comportamento.

Due altri aspetti vanno considerati per completare il quadro:

  • Non vi sono solo neuroni che vengono attivati in presenza di uno squilibrio vegetativo, riconosciuto dall’ipotalamo (freddo, caldo, bisogno di bere, di mangiare, desiderio sessuale), ma anche neuroni che vengono attivati da regioni che elaborano il vissuto emotivo, da regioni che regolano le interazioni affettive e sociali, e da regioni ad attività strettamente cognitiva: la possibilità di avvicinare la persona amata, e la soddisfazione di averla vicina; la possibilità di ottenere apprezzamento sociale, e il suo ottenimento; l’impressione di poter risolvere un problema, capire una questione difficile, e la soddisfazione della soluzione, della comprensione; il nucleo accumbens risponde a queste possibilità di gratificazione − e al raggiungimento di queste gratificazioni, esattamente allo stesso modo in cui risponde alla possibilità di interrompere un dolore o un disagio vegetativo, e alla sua effettiva interruzione. Ovviamente si tratta in ogni caso di un gruppo diverso di neuroni
  • Non tutto è già scritto nel nucleo accumbens: se vi sono neuroni originariamente destinati a scaricare alla presentazione dell’acqua quando questa si presenta o si placa la sete, ve ne sono una grande quantità che possono acquisire con l’esperienza la capacità di riconoscere la possibilità di ottenere ogni singolo tipo di gratificazione che si possa avere occasione di incontrare − specialmente in modo ripetitivo. Non è ancora del tutto chiaro quanto intensa sia la plasticità dei neuroni dell’accumbens, e cioè se a “imparare” sia la circuiteria del nucleo accumbens o piuttosto le regioni corticali che, direttamente o indirettamente, proiettano su questi neuroni. Ciò che è sicuro è che, se una specifica forma di gratificazione si presenta ripetutamente in una certa situazione, allora alcuni neuroni dell’accumbens impareranno a scaricare ogni volta che quella situazione si può ripresentare, per avviare il comportamento adatto a riproporla; e altri neuroni dell’accumbens scaricheranno quando la gratificazione si presenta, rinforzando questo apprendimento.
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Il lato oscuro

Varrebbe la pena di ripensare a quanto l’attesa, la pregustazione del piacere, sia intrisa di piacere essa stessa. In molti casi, è la parte veramente bella e intensamente piacevole della faccenda: “non vedo l’ora”, non è impazienza triste o ansiosa, no, è piacere puro della pregustazione.

E forse la cosa più difficile nel crescere è adeguare la percezione del rapporto tra pregustazione e raggiungimento del piacere ad una nuova situazione di indipendenza e autonomia.

Da piccoli l’attesa della gratificazione è in genere soddisfatta, per tutto ciò che riguarda esigenze elementari; per il resto, è il genitore che permette la magia, la realizzazione del desiderio. E la conquista della gratificazione passa attraverso le opportune strategie per OTTENERLE dal genitore, e l’approvazione del genitore diviene essa stessa la gratificazione più grande, promessa implicita di ogni gratificazione futura.

Con l’adolescenza, il cambiamento delle esigenze esistenziali (il desiderio è ora rivolto alla conquista di consenso, alla autoaffermazione, alla soddisfazione della creazione, e del gesto, alla considerazione e ammirazione dei pari) crea una situazione di insoddisfazione verso il mondo, che non esaudisce queste istanze dietro precisa e semplice richiesta, come ci hanno insegnato i genitori, e non è più sufficiente comportarsi bene per essere ricompensati con tutto ciò. In più, una sensazione di inadeguatezza per la propria incapacità di ottenerle di propria iniziativa, e una spinta alla ricerca di strategie di comportamento e adeguamento per conquistare la benevolenza. Qualora falliscano la richiesta e il “buon comportamento”, resta aperta la ricerca di strategie autonome di autoaffermazione, che però si rivolge totalmente all’interno, e tende quindi a privilegiare il guardarsi/sentirsi agire, e cresce enormemente il valore del gesto, specie coraggioso, spesso autolesivo, per l’intensità della sensazione di autosufficienza, di affrontamento/superamento del dolore.

Vagando per blog di giovinetti colpisce la frequenza con cui ricorre la narrazione di gesti autolesivi consapevoli, programmati, pregustati. E colpisce proprio la esplicita pregustazione del gesto, l’affetto manifestato verso la lametta, il rituale, il chiudersi in bagno, il piacere di vedersi farlo, il dolore il sangue che esce... Con gli stessi tempi, le stesse parole, altri giovani descrivono il farsi i buchi nel cervello. Gesti che dipendono solo da te, che hai “il coraggio” di compiere, che ti esalta vederti compiere, e ricordare, “ho avuto il coraggio”.

Paradosso terribile!

Non c’entra nulla il significato, il messaggio, originale del gesto (“tagliarsi le vene”), no! qui occorre capovolgere la psicanalisi, non è problema di autodistruttività del lapsus o del mangiarsi le unghie.

No! questa apparente autodistruttività non è morte, è vita − distorta per quanto ne sia l’interpretazione − è affermazione, è urlare “guarda ci sono”, è urlare “almeno questo, che dipende da me, lo so fare!”

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La via nervosa che più specificamente e intensamente attiva i neuroni “del piacere” parte da regioni profonde del mesencefalo, la parte più alta del tronco encefalico; un’area detta “ventro-tegmentale” (VTA). Di qui partono due vie importantissime, che utilizzano entrambe la dopamina come trasmettitore; una va verso l’accumbens, e di qui alle regioni “limbiche” che elaborano le emozioni (via mesolimbica): la sua attivazione produce la sensazione di piacere e al tempo stesso rinforza il comportamento che ha prodotto la situazione presente (piacevole). È detta “via della ricompensa”. Qualunque farmaco che faciliti il rilascio di dopamina (o ne potenzi l’azione) su questa via è in grado di produrre una sensazione di piacere (nicotina, anfetamine, ecstasy, oppiacei, cocaina, marijuana, alcool, forse anche il cioccolato e lo zucchero, più blandamente). E di conseguenza si “impara” a cercare il farmaco come fonte di piacere. Più subdolo, e altrettanto cruciale, è l’apprendimento da parte dei neuroni “anticipatori”, che imparano a segnalare la possibilità di ottenere il piacere dal farmaco ogni volta che ci si trova in una situazione nella quale in passato si lo è ottenuto − specifici luoghi, persone, situazioni. Questo apprendimento, e la violenta forza motivazionale che l’attivazione dei neuroni “anticipatori” è in grado di esercitare, spiega perché resti così grande il rischio di ricaduta nella farmaco-dipendenza anche per chi se ne sia liberato “definitivamente”: l’esposizione a luoghi, persone, situazioni associate in precedenza all’assunzione del farmaco scatena un desiderio violento, una forza motivazionale verso la ricerca e l’assunzione del farmaco alla quale è veramente difficile resistere.

La seconda via in partenza dalla VTA si dirige alle regioni prefrontali, proprio quelle descritte più sopra come implicate nell’avvio dei comportamenti, e quindi nella modulazione del comportamento volontario (via meso-corticale). Anche questa è una via che usa dopamina come trasmettitore. Il corretto equilibrio tra le attività delle due vie, mesolimbica e mesocorticale, è cruciale per mantenere un adeguato rapporto tra le attività cognitive (e il comportamento volontario) e il vissuto emotivo. Uno squilibrio, che è possibile generare oppure talora “curare” con farmaci che interferiscono con l’attività della dopamina, produce la “dissociazione” tra le due sfere − cognitiva ed emotiva − dando luogo a disturbi del pensiero e del comportamento di tipo psicotico, fino al quadro clinico ben definito della schizofrenia (rottura, dissociazione, dell’animo).

A questo punto il quadro è ragionevolmente chiaro:

  • qualunque comportamento in grado di porre termine a un disagio o di permettere il conseguimento di una gratificazione viene pesantemente sollecitato − MOTIVATO − dal riconoscimento della possibilità di metterlo in atto.
  • la continua attività di elaborazione e valutazione della situazione reale, e di simulazione di comportamenti e valutazione delle loro conseguenza, che ha luogo nelle regioni associative della corteccia, traduce ogni strategia − anche la più complessa − che sia in grado di portarci al conseguimento di una gratificazione in un riconoscimento della possibilità di mettere in atto il comportamento adeguato, e quindi MOTIVA la strategia e il conseguente comportamento
  • in ogni istante le regioni prefrontali responsabili dell’attuazione di comportamenti sono “bombardate” da richieste che provengono da ogni regione associativa che propone un comportamento atto a ottenere una gratificazione, sia essa di origine viscerale, vegetativa, emotiva, affettiva, sociale o cognitiva.
  • le regioni responsabili della programmazione del comportamento devono valutare da un lato la compatibilità dei diversi comportamenti e delle diverse strategie che vengono proposte e sollecitate, e dall’altro l’intensità della MOTIVAZIONE associata ad ognuna di esse
  • questo non è un banale calcolo statico, uno schema con crocette che indicano l’intensità di ogni forza motivazionale, e vince la più forte... È una continua valutazione di ipotesi alternative, di tentativi di conciliazione e necessità di esclusione, che dà luogo a complessi percorsi, a pianificazioni alternative, a simulazioni interiori di comportamenti. E tutto il processo è disturbato da risposte riflesse, istintive e automatiche che si generano nei livelli più bassi del sistema nervoso: queste talora interferiscono pesantemente con la possibilità di attuare una pianificazione complessa dei comportamenti; in altri casi invece possono essere previste, e saranno allora anticipate ed inibite in modo da poter perseguire le strategie complesse di comportamento elaborate dai centri superiori
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Da quanto detto fin qui, le aree associative frontali ininterrottamente elaborano strategie e proposte di comportamento, e ad ognuna di queste strategie è associata una FORZA MOTIVAZIONALE, che è generata da un lato dalla intensità del piacere ottenibile (gratificazione o riduzione di disagio o dolore), dall’altro dalla possibilità di ottenerlo.

Quando una strategia risulta essere sostenuta da una forza motivazionale sufficiente (in assoluto e rispetto alla forza che sostiene comportamenti diversi non compatibili), specifiche regioni della corteccia prefrontale “avviano” il comportamento.

Demoralizzante.

E l’anima, dov’è finita? non si doveva parlare di anima qui?

Vero. Detta così, sembra solo un bieco calcolo materialistico (nooo! come lo devo dire che non è un calcolo ma una valutazione in continua evoluzione di strategie alternative, un riesame continuo alla luce di proposte sempre nuove di integrazione, conciliazione, esclusione...). Va bene. Non è un calcolo. Ma è materialista. Si parla solo di gratificazione, disagio, dolore e piacere.

Oddio, non fingiamo di non sapere. Kant stesso ha avuto una crisi di depressione quando ha completato la sua critica della ragion pratica e si è accorto che il suo imperativo categorico, quella forza che ci spinge ad agire prescindendo da ogni interesse personale, e perseguendo ciò che è GIUSTO solo ed esclusivamente PERCHÉ È GIUSTO, di fatto non si dà mai nella vita: la motivazione non è mai esclusivamente etica, c’è comunque la soddisfazione di aver agito bene, il sentirsi meritevoli di approvazione da parte di se stessi, degli altri, di chi non sa ma se sapesse, magari anche l’attesa del premio in un’altra vita, e il sollievo dal rimorso, il senso di superiorità che dà il non dover ringraziare e dover casomai essere ringraziato, e si potrebbe proseguire per qualche pagina di questo passo...

Allora, la questione − almeno per un trattato di FISIOLOGIA dell’anima − è un’altra. Non se vi sia una forza spirituale che si sovrappone alla bufera motivazionale nella corteccia frontale − tutta presa da piaceri terreni, − ma come valori sovrapersonali, sociali, etici ed ideali possano introdursi in questa bufera motivazionale, sostenuti da moneta di pari corso, che la corteccia possa prendere in considerazione e valutare in modo “omogeneo” rispetto alle altre forze motivazionali fin qui descritte.

E qui ancora una volta certi limiti e confini sembrano svanire magicamente. Perché prendendo uno per uno in considerazione questi valori sovrapersonali si vede che hanno riscontri in attività cerebrali, e modo di tradursi in forze motivazionali “neuronali”, non diverse (da un punto di vista biologico) dalle motivazioni vegetative, di evitamento del dolore e di ricerca del piacere.

Le parole chiave sono EMOZIONE, apprezzamento SOCIALE, desiderio di superare i propri LIMITI, affettività e AMORE, compassione e SOLIDARIETÀ, ETICA, armonia, BELLEZZA, anelito all’INFINITO.

Le EMOZIONI, vissute e comunicate visceralmente, sotto il livello di coscienza, sono elaborate da porzioni di corteccia che non danno loro parole ma applicano una vera e propria logica, implicita, non razionale, non verbale: la logica emotiva, “l’intelligenza del cuore”. Queste regioni sono strettamente interconnesse con i sistemi di “attesa” e di “gratificazione”, appena descritti, sia direttamente, sia attraverso l’elaborazione cognitiva e verbale, da parte di altre aree frontali che pianificano strategie comportamentali adatte a perseguire benessere e gratificazioni emotivi. Il legame è stretto e duplice: da un lato le emozioni possono facilmente generare potenti forze motivazionali; dall’altro proprio queste regioni elaborano l’attività dei neuroni di “attesa” e “di gratificazione” traducendola in emozione: desiderio, ansia, soddisfazione, piacere.

Le emozioni si trasmettono direttamente senza bisogno di elaborazione cognitiva: sono meccanismi chiaramente presenti anche negli animali: l’emozione dà luogo a comportamenti istintivi − mimica, atteggiamenti corporei − che hanno la funzione appunto di comunicare ai propri simili le emozioni. Questo permette, per esempio, alla paura che un animale prova, accorgendosi della presenza di un predatore, di trasmettersi rapidamente − proprio grazie ai suoi atteggiamenti corporei - a tutto il branco, che più rapidamente può mettersi in salvo. I centri sottocorticali (che lavorano in modo fondamentalmente istintivo e inconsapevole) riconoscono le risposte mimiche legate all’emozione e riproducono nel soggetto che le vede la stessa emozione che le ha generate. Non occorre animo sensibile per provare gioia di fronte alla gioia e tristezza di fronte alle lacrime... (x)

Di qui la grande potenza motivazionale delle emozioni altrui, del consenso e dell’approvazione sociale, che si traducono immediatamente in emozioni in prima persona.

In realtà questo è un aspetto del funzionamento del sistema nervoso che non è limitato alle regioni “basse” che elaborano le emozioni − proprie e altrui. Come è ormai noto anche fuori della cerchia ristretta di chi si interessa di neurofisiologia, esistono in diverse regioni corticali cellule dette “neuroni specchio”: sono gruppi di neuroni che si attivano durante la programmazione di movimenti, gesti, atteggiamenti, e che si attivano esattamente nello stesso modo quando si vedono eseguire da un altro gli stessi movimenti, gesti, atteggiamenti. La funzione di questa “imitazione mentale” dei comportamenti altrui è importantissima per l’apprendimento di nuove procedure e strategie di comportamento, e questo avviene continuamente e diffusamente, in regioni della corteccia che operano sotto il livello consapevole. Certo, un comportamento si può riprodurre volontariamente, e vederlo eseguire rende più facile studiare il modo di riprodurlo, ma la base neuronale è proprio la “simulazione” del movimento, che avviene “automaticamente” nelle regioni di programmazione motoria: un “immaginare” inconsapevolmente i movimenti anche senza eseguirli materialmente.

Si diceva altrove che c’è poco di più personale delle nostre espressioni, dei nostri gesti abituali. Ma quante volte capita che per inconscia imitazione − succede molto ai bambini ma anche a noi con le persone che amiamo − si riproducano più volte espressioni e gesti di un’altra persona, fino a farli diventare a poco a poco nostri, personali...

Tutto questo sostiene una forte, incontrollabile tendenza all’immedesimazione, alla condivisione, alla COMPASSIONE (soffrire insieme)... (x)

Questa tendenza all’immedesimazione è particolarmente forte verso le persone che ci sono vicine, emotivamente, affettivamente, che occupano una posizione privilegiata nella nostra vita emotiva, nella nostra memoria, nel nostro vissuto, e attribuisce all’affetto e all’AMORE una potente valenza motivazionale.

Ma la tendenza all’immedesimazione si traduce anche nella capacità − ancora una volta senza bisogno di un’anima particolarmente nobile − di caricare di valore motivazionale le esigenze, le emozioni, i sogni degli altri, di trasformare anche la solidarietà in un importante fattore nel nostro equilibrio motivazionale.

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Amleto e le donne

In fondo, ciò che estenua è la responsabilità, è prendersi cura.

L’artista parla a tutti. Letterati poeti ed eroi hanno certo pensato che il Bardo soprattutto al loro cuore parlasse, diretto e preciso. Ma forse più ancora − e forse senza neppur volere − lui parlava all’anima della donna, di ogni donna, madre, massaia, amante, semplicemente donna.

La donna che sa costruirsi un mondo attorno, per sé per i suoi cari, e lo ama e lo cura.

La donna che non sa disinteressarsi del suo mondo, abbandonarlo allo sfascio.

La donna che si domanda “ma perché lui può aggirarsi tranquillo tra pile di piatti sporchi, biancheria abbandonata, la tavoletta del water sempre sollevata, a mostrar l’orrido pertugio verso il fetido mondo di sotto?”, “e perché io no, perché io devo farmene carico?”.

Non sarebbe tanto meglio per una volta sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell'iniqua fortuna, invece di prender l'armi contro un mare di triboli − e letti sfatti e perfidi batteri − e combattendo disperderli? O magari dormire, sognare forse....

Forse anche per questo Amleto è caro alle donne. È tenero, povero ragazzo − goffo al punto di far impazzire la sua Ofelia, tanto la ama e tanto questo lo fa agire da scemo. Smarrito, ma lui si fa carico. Si guarda intorno, “c’è del marcio in Danimarca”, “il mondo è fuori squadra”, pare che tutto gli suggerisca non curartene, fatti i fatti tuoi, se il mondo è storto non è colpa tua, non è compito tuo pulirlo lucidarlo raddrizzarlo riordinarlo farlo funzionare...

Ma lui no!

Essere o non essere, perché mi tocca farlo, proprio a me? Ma non posso non farlo e stare a guardare, potessi stare a letto a dormire, e svegliarmi che il mondo si è rassettato da solo e tutto gira per il meglio senza che sia sempre io a dover correre...

E forse Amleto è eroe proprio in questo suo tratto femminile. Primo eroe della storia non imbeccato da dio, non armato di sicurezze incrollabili, non succubo di codici d’onore e fiero del suo destino. Orfano. Orfano di padre. Di dei. Di sicurezze.

Dell’uomo ha i difetti, ingenuo, casinista, inconcludente; e questo suo pensarci, e farsi carico, invece di seguire la sua strada sicuro delle regole che gli hanno insegnato,come farebbe qualunque altro eroe, è assolutamente disastroso: diventa capace di frantumare candidamente, come un rullo compressore, l’anima di chiunque lo ami. E oltretutto, certo come partner non sarà la scelta migliore − ti fa impazzire in men che non si dica... ma quale donna resisterebbe a uno così, che la faccia un po’ soffrire, non per cattiveria, ma proprio perché è stupido, armato di cartelli lampeggianti che mettono in guardia “attenta, non so che faccio, potrei farti molto male!”... E se in più è tenero, e si fa carico...

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Bisogni vegetativi e fisiologici, dunque, a guidare il nostro comportamento, e fuga dal dolore e dal disagio, e ricerca di gratificazioni e piacere, ma anche emozioni, nostre e altrui, e approvazione sociale, e affetti e amore, e solidarietà.

Tutto tradotto da un lato in attività di neuroni che segnalano la possibilità di un successo in ognuno di questi ambiti − e generano attesa − e dall’altro nella attivazione di vie che provocano piacere in senso stretto (fisico, se si vuole, ma non so chi sappia chiaramente indicare le differenze tra un piacere fisico ed uno emotivo, o affettivo, etico, estetico: forse il piacere potrebbe essere definito proprio come ciò che tutte queste forme di benessere hanno in comune...).

E tutto dunque trasformato in forza motivazionale, capace di sollecitare l’elaborazione di strategie di comportamento opportune e di avviarne la messa in opera.

È evidente, però, che alla prova dei fatti non si tratta di scegliere un paio di scarpe, di selezionare semplicemente tra i tanti comportamenti possibili, quello migliore − nel senso che lo spinga una somma di forze motivazionali (favorevoli e contrarie) maggiore degli altri. Si tratta di comparare e cercar di conciliare, e rinunciare, e comporre strategie complesse, equilibri delicati, in un quadro mutevole sul quale ogni nuova prospettiva, ogni modo di considerare elementi e relazioni, getta luci nuove e ombre cangianti.

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Che cosa ci muove? L’impeto del bisogno, desideri, paure e sogni, e poi progetti e razionalità...

Ma la razionalità è molteplice esigente articolata capziosa grigia e mai contenta. Come un mare dispettoso, talora tempestoso, correnti impreviste e venti mutevoli.

In fondo ciò che vorremmo è una corrente invincibile, un vento teso, costante, un motore forte, dentro, la capacità di regolare le vele, tener saldo il timone..

In fondo ciò che vorremmo è una motivazione forte e sicura, che metta a tacere desideri, dubbi, incertezze...

In fondo ciò che vorremmo è solo passione − il bisogno, il desiderio assoluto, l’ira di Achille, la fede di Abramo e di Agamennone nell’assurda volontà degli dei, l’amore della Karenina − passione capace di zittire la ragione e prender possesso dei gesti.

Talvolta, come Amleto, ciò che vorremmo è la follia − più che fingerla lui desidera disperatamente, - la follia di “prender l’armi” e battersi senza esitazione, o saper farla finita.

La follia, che terrorizza e affascina, perché uccide la ragione ma con essa anche la responsabilità: “incapace di intendere e di volere”, ergo non responsabile.

Guidato da altro dalla ragione... LIBERO dalla ragione? Libero dal conflitto?

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