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Fisiologia dell’anima - o, se preferisci, - neuroni & anima
Riccardo Fesce - tutti i diritti riservati (editori e agenti interessati, inviare una mail)
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IV

Forse tutt’e due − Oltre il limite - META

Natura non facit saltus.

Eppure una delle contestazioni a Darwin è proprio che l’evoluzione non pare procedere così liscia e tranquilla.

In realtà è il mondo a non procedere tranquillo. E’ proprio la natura a procedere a balzi. In realtà, i balzi non sono suoi, siamo noi a vederli. Ci accorgiamo che tutt’a un tratto compaiono proprietà che richiedono nuovi approcci interpretativi e nuove letture, e decidiamo che ordini nuovi e diversi sono stati raggiunti, e limiti valicati.

La vita stessa è il più mastodontico di questi balzi. Gli acidi nucleici, molecole che possono guidare l’energia potenziale della chimica all’intorno verso la loro stessa riproduzione, e poi verso la sintesi di molecole ancora più versatili − le proteine − e attraverso queste verso l’organizzazione di sistemi complessi, ordinati, cellule e organismi capaci a loro volta di approvvigionarsi di energia e usarla per sostenersi, modellarsi, evolvere e riprodursi.

Un balzo. Certo, un possente e spaventoso balzo verso possibilità infinite. Ma un balzo che non ha punto di partenza o di svolta o d’arrivo. Ciò che reggeva tutto prima − energia, potenziali, entropia − regge tutto anche dopo. Eppure in ciò che esisteva prima non si poteva leggere questa possibilità di riprodurre una forma ordinando materia esterna. E i balzi in realtà sono due: riprodurre la forma ordinando materie, certo, ma la cellula − l’organismo, in più, sa tener viva la forma in un incessante scambio di materia con l’esterno, sa guidare nel tempo un’entità individuale e riconoscibile nonostante il suo mutare finché, dopo decenni, non una sola molecola di ciò che la costituiva all’inizio sarà ancora lì a farne parte.

E poi, nuovi balzi impressionanti. La sintesi nei batteri e nelle piante di molecole capaci di catturare i raggi solari e usarli per distruggere equilibri stabili − molecole inerti come acqua e anidride carbonica − combinandole in zucchero, vigoroso e energetico, pronto a cedere la sua energia per ogni uso possibile da parte della cellula, o a offrirsi come alimento per altri organismi, incapaci di sfruttare l’energia del sole ma ben felici di permettere allo zucchero di disgregarsi pur di poterne impiegare l’euforia per costruirsi, e riparare proprie cellule e tessuti, muoversi, e cambiare il mondo. Nascono i vegetali, e poi gli animali. Nasce la possibilità di usare per far vita non solo l’energia potenziale rimasta intrappolata nel raffreddamento della terra dopo il big bang, ma anche quella che arriva dal sole. Eppure le regole di prima sono ancora valide. Solo, ne occorrono di nuove, per capire i nuovi processi, le nuove regolazioni, le nuove possibilità, della vita.

Un altro grande balzo: lo sviluppo di cellule capaci di segnalare in un punto dell’organismo cambiamenti avvenuti in un altro punto, le cellule nervose, i neuroni. E reti sempre più complesse di neuroni, che permettono di rispondere contemporaneamente a stimoli diversi, di comparare integrare e modulare risposte complesse, di organizzare comportamenti coordinati di tutto l’organismo.

Ancora. Lo sviluppo di un sistema nervoso centrale, dove l’insieme delle informazioni che pullulano tra neuroni e loro intricate connessioni viene a costituire una rappresentazione completa di tutte le complesse relazioni che organizzano l’organismo, la realtà, e le loro interazioni; un sistema che permette l’organizzazione del comportamento sulla base di sofisticate valutazioni delle esigenze vegetative e di meno facilmente descrivibili forze motivazionali. Nasce una metabiologia che la fisica e la vita non bastano a interpretare e capire, che ha sue regole, forze e dinamiche, e invade il campo dell’immateriale, della conoscenza, di una cibernetica (kybenétes è in greco il pilota, e cibernetica è la scienza del controllo e dei sistemi di controllo) caratterizzata da anticipazione e azione finalizzata.

Infine, la crescita impressionante, nell’uomo, della corteccia cerebrale, la fa capace di sottrarsi alla funzione di produrre semplicemente una risposta per ogni stimolo: nella corteccia pullulano innumerevoli letture diverse della realtà, ognuna nasce e si evolve rielaborando le informazioni che la raggiungono secondo modalità, angolazioni e contesti specifici. Ognuna è integrata con le altre, ma complessa in sé e per molti versi autonoma, immagine di un aspetto di sé o del mondo che nasce cresce evolve come un meta-organismo, dotato di vita propria, seppure confinato nell’immaterialità della rappresentazione formale, astratta.

Eppure non c’è contraddizione. Le regole sviluppate fin qui valgono ancora, le energie, le forze, i meccanismi, i processi. E vale ancora quasi immutata la regola fondamentale: ogni evento ha la sua causa, energie che spingono, meccanismi che possono permetter loro di liberarsi più o meno agevolmente producendo uno o l’altro effetto. Meccanismi spesso così complessi da renderne difficile la comprensione, anche solo una accurata descrizione fenomenologica. Eppure si intravedono ancora con chiarezza, anche sotto l’apparenza di processi guidati da aspirazioni e fini.

Non c’è contraddizione ma ad ogni passo, ad ogni balzo, compare una dimensione nuova che occorre cogliere per comprendere che cosa si ha di fronte. Ad ogni balzo una nuova descrizione formale diventa più appropriata perché le regole che guidavano i sistemi più semplici, pur continuando a operare sotto sotto, non sono quelle rilevanti per descrivere e comprendere la dinamica complessiva del nuovo sistema, governato da certe specifiche necessità, e interazioni, che in sistemi più semplici non si potevano neppure immaginare.

E poi il balzo finale (almeno per ora). Dalla rappresentazione, di oggetti, eventi, relazioni semplici e complesse, alla manipolazione concettuale e simbolica.

Le mille letture diverse che si agitano nel cervello plasmano i concetti, costruiscono una visione molteplice complessa e variegata della realtà e di sé, fatta di metafore, capace di simboli e di manipolazione astratta. Di ogni elemento dell’esperienza regioni specifiche della corteccia valutano aspetto visibile, suono, odore, sapore, relazioni spaziali e temporali con altri elementi, ordine, valenza affettiva e valore per il soddisfacimento di esigenze vitali. Con lo sviluppo massiccio delle aree associative della corteccia, regioni nelle cui circuiterie vengono messe in relazione tra loro tutte le letture di un oggetto presenti nelle varie porzioni del cervello, nasce la possibilità di una rappresentazione astratta dell’oggetto in tutti i suoi aspetti, di un concetto, principio unificante di una molteplicità coerente. Di un concetto dell’oggetto, o dell’evento, di un insieme di oggetti, o di una sequenza di eventi, il concetto stesso di relazioni tra oggetti, e tra eventi, e di relazioni tra relazioni.

E qui, nei sistemi che raccordando le mille letture, germoglia la coscienza, uno sguardo consapevole di sé e del mondo. Sintesi e unificazione di molteplicità. E la regolazione del comportamento si fa attenta e delicata, nella variegata interazione di forze motivazionali vegetative, edoniche e socioculturali, e ideali; si profila una chiara e reale possibilità di scelta, il comportamento finalizzato in senso stretto. E non bastano più biologia e cibernetica, qui, si invade il campo dell’epistemologia, dell’etica, della libertà; si sconfina nei territori dell’anima.

Concomitanza di metafore, coscienza e libero arbitrio.

E poi il linguaggio, quintessenza e mirabile strumento e giocattolo per la rappresentazione simbolica − e manipolazione simbolica.

Sì, il linguaggio è un buon paradigma per capire il cervello, e il potente balzo che l’uomo rappresenta nell’evoluzione. Ora, Ipse − Aristotele per gli amici − aveva anche qualche difetto: un po’ bacchettone e bragalmondista, sarà anche stato così distratto − come gli rinfaccia Galileo − da non accorgersi che per definire lo spazio bastano tre dimensioni per un motivo piuttosto semplice − e cioè che per un punto non possono passare più di tre rette perpendicolari tra loro, e che quindi, per sostenere che le dimensioni di un corpo devono essere tre e non più di tre, non c’era alcun bisogno di ricorrere ad argomentazioni sofistiche e mistiche sulla perfezione del numero 3... Ma sul logos, sul linguaggio, Ipse non era distratto: sul logos la sapeva lunga, e ha visto lontano.

I suoni che gli animali emettono hanno un significato, e la voce con le sue modulazioni sa esprimere naturalmente tanti significati e sfumature. Ma il linguaggio è un’altra cosa. Nel De Anima Ipse svela il trucco: è stato necessario spogliare i suoni della voce del loro significato naturale; e poi cristallizzare fonemi, suoni vocali, privi di significato; e infine dar loro un nuovo significato combinandoli, in parte arbitrariamente in parte per somiglianza assonanza e associazione, secondo molteplici criteri e regole, creando un sistema di simboli. Un sistema che esiste in quanto insieme di segnali, che hanno un preciso significato solo nell’ambito di quel sistema stesso. Gli stessi fonemi in una lingua diversa hanno significati diversi, gli stessi significati in un’altra lingua richiedono fonemi diversi.

Ma perché nel de Anima? perché si avverte subito che manipolare simboli non ha niente a che fare con la realtà materiale, che qui ci si sta staccando dalla realtà sensibile, si sta prendendo il volo verso lo spirito, quella parte dell’intelletto che non ha nulla di meccanico e prevedibile.

E raccontiamoci pure che le api si parlano, si spiegano dove trovare cibo con voli simbolici, che il nostro gatto capisce e miagola che pare che parli... c’è una differenza non da poco: tutti i suoni e i modi di comunicazione animali simulano, rappresentano, descrivono secondo associazioni predeterminate e/o naturali, sono linguaggi mimici. Il simbolo è altra cosa, di per sé non ha nulla che lo leghi al suo significato; in un’altro sistema simbolico, in un’altra lingua, potrebbe voler dire tutt’altro. Ci spiegano a scuola che esistono parole che ricordano e rappresentano il loro significato per associazione naturale, ci insegnano a chiamarle onomatopeiche, ma non sono che rare eccezioni. E non c’è nulla di strano. Perché non servono, se non talvolta per evocare in modo diretto e preciso − istintivo, verrebbe da dire − oggetti azioni e immagini, e più ancora le emozioni che a quegli oggetti, azioni e immagini ci vien spontaneo associare.

La capacità di manipolazione simbolica è una nuova dimensione della vita che si apre con l’Uomo. Ed è curioso che non ci sia bisogno di modelli formali per iniettarla nel cervello: proprio il modo in cui i circuiti neurali elaborano informazioni delinea i limiti, le modalità e le regole con cui sappiamo generare simboli e combinarli in un sistema simbolico. Le caratteristiche formali e fondamentali comuni a tutti linguaggi dei popoli dei mondo sono parecchie, e sostanzialmente riflettono i modi in cui la corteccia cerebrale riconosce e classifica oggetti e relazioni spaziali, temporali, causali che paiono legarli...

Ma stiamo correndo troppo. Aspettiamo di aver descritto almeno sommariamente come funziona il cervello.

Per ora accontentiamoci di aver descritto questo balzellon-balzellonare della natura; di volta in volta creando sistemi più complessi, che trascendono le regole e i meccanismi di quelli precedenti, e invadono domini sempre più ampi e elevati di ordine, forma, immaterialità.

Fino al linguaggio, al pensiero.

E cresce la complessità, e la molteplicità.

Ma allora forse l’evoluzione ha un senso, una direttrice dominante. Va alla cieca, è vero, ogni strada è buona pur di produrre e moltiplicare vita, che permette sempre nuovi modi di consumare l’energia bloccata. E non abbandona le strade alternative, solo le chiude quando non possono più competere (la chiamiamo selezione naturale), ma nei limiti del possibile e dell’accettabile continua a tenere aperte tutte le tattiche. La direttrice è la molteplicità, la “biodiversità”, le mille e mille soluzioni diverse per ogni problema. Ma in questa ricerca talora la natura si imbatte in “salti di qualità”, in soluzioni nuove sostanzialmente più complesse, che permettono maggiore malleabilità, e molteplicità di strategie da parte di uno stesso organismo. E in questa direzione alla molteplicità si affianca la complessità: l’evoluzione non abbandona le soluzioni semplici, ma oltre al moltiplicarle si mostra capace di affiancarvi soluzioni via via più complesse, che sconfinano dalla problematica della mera sopravvivenza e iniziano a modificare il mondo, e poi a rappresentarlo, e poi a interpretarlo, e comprenderlo, e guardarsi, e comprendersi.

In questa direzione − complessità e molteplicità, soluzioni che si allontanano dal mero affrontare praticamente il problema e esplorano implicazioni e colori e atmosfere e armonie più alte − è chiaro che l’uomo non è il punto d’arrivo. L’evoluzione ha già compiuto almeno un altro passo: la donna…

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Il creatore creato, ovvero evoluzione e storia, ma DI CHI? (1)

Si è soliti pensare che l’Uomo viva la sua storia e ne segni le tappe nelle pietre e nei papiri, nelle tradizioni, nelle conoscenze, nei prodotti, nei miti e nelle convinzioni religiose, nelle strutture politiche e nell’organizzazione sociale.

Curiosa convinzione...

I biologi molecolari fanno giochi di enigmistica - che si piccano definire studi scientifici e mascherano di intensa concettualità − attraverso i quali si generano schemi analoghi ad alberi genealogici, dove lieviti vermi trifogli uomini conigli e batteri vengono disposti su rami più o meno lontani in funzione delle differenze che distinguono le rispettive sequenze nel gene di interesse − e qui sta l’enigmistica: ordinare tutte le differenze e dedurre dove ognuna di esse si è generata ricostruendo il cammino evolutivo del gene... Non granché come enigmistica, però, o come ginnastica mentale, perché tanto lo fa il calcolatore.

Guardare questi schemini di solito annoia, qualche volta esaspera − specie quando incombe lo spauracchio dell’esame, ma se facendo appello alle mille risorse che il nostro cervello ci offre, nel presentarci similitudini e vie di fuga dalla noia, ci coglie la fantasia di ricercarvi un senso, una storia, uno sviluppo, una poesia, emerge evidente affascinante e intrigante l’immagine di un serpentello colorato, una infinita scala a chiocciola che, contorcendosi nei millenni e riproducendosi, grazie alle brame sessuali di stupidi esseri animati che si illudono che l’aria sia lì per loro da respirare, l’acqua da bere e tutto il mondo da mangiare e distruggere, è forse l’unica cosa realmente sopravvissuta, ed evoluta, in tutto questo tempo. E in senso stretto neppure il serpentello ha vissuto attraverso la preistoria la storia il lunedì nero e il contestato capodanno del mille e non più mille (1.1.2000, 1.1.2001 ? ai posteri l’ardua sentenza), non il serpentello ma LA SEQUENZA...

E ciò che è scritto, non evolve anch’esso? la conoscenza, le idee, le interpretazioni, le immagini, le storie scritte hanno un loro percorso, una loro crescita ed evoluzione, ogni scritto si nutre di ciò che in precedenza è stato scritto, digerito in un pasto solitario dal letterato astruso o rimescolato contaminato tritato vomitato e ricomposto da un bagno di folla, letto insegnato imparato discusso rifiutato e rivisitato... E se per vivere e riprodursi LA SEQUENZA ha saputo creare la vita e si è trovata, a furia di ricombinare tutto in tutti i modi, ad appoggiarsi ad esseri capaci di disegnare e di ritrarre la realtà che li circonda, perché non ne poteva approfittare IL TESTO, nato embrionalmente in screzi di roccia argillosa sulle pareti di una grotta, per organizzarsi e crescere e vivere la sua storia, usando cervelli e talora visceri ed emozioni degli uomini per rapprendersi in equilibri sempre nuovi e più complessi e abbracciare orizzonti sempre più vasti?

E che abbiamo mai da dire noi dell’arte? che c’entriamo noi? è come sentirsi orgogliosi, formiche in fila, della maestosità del formicaio, dei sublimi e superiori equilibri che non noi, ma qualche strana proprietà emergente dall’insieme coordinato di miliardi di noi ha creato! L’espressione pittorica, volumetrica, linguistica di venature persistenti nella natura e nell’uomo, di rapporti inaspettatamente ritrovati in ambiti diversi, di insondabili inattesi improbabili equilibri, della QUINTESSENZA delle cose, si è snodata nella storia come un fantasmagorico disegno in continua evoluzione, di cui siamo solo ignari artefici e spettatori, come le 10000 comparse dell’albero di natale della coca cola che, candeline in mano, non si vedono parte del risvolto poetico del mercato...

E hanno usato l’uomo per crescere riprodursi modificarsi e contorcersi in una dubbia ed incerta evoluzione anche l’economia, e il mercato, e l’ORGANIZZAZIONE sociale che si trasforma nella storia, alle nostre spalle, usando uomini come figurine per un millennale gioco di ruolo.

E infine il conforto, l’oppio e la superstizione. Il mito e la interpretazione spirituale e mistica del bene e del male nella vita, del male soprattutto che è più difficile da sopportare, e della morte stessa che è più difficile da accettare. Dal più rozzo spiritello naturale al sofisticato dio uno e trino misterioso e incomprensibile, rivelato nella sua divina umanità per sfuggire la ragione e mantenere viva la devota, fiduciosa, ignara e umile accettazione, giustificazione somma del valore della vita in un mondo che uccide per denaro, e dell’amore in un mondo dove si ama solo ciò che si può possedere, per garantire il desiderio di copulare e riprodursi, e tener viva la religione stessa nei millenni, e con essa DIO, ma così anche il TESTO, e la QUINTESSENZA, e LA SEQUENZA madre di tutte le cose vive…

E forse allora non un dio che crea l’uomo perché riconosca il suo creato e lo lodi e onori, ma la SEQUENZA che crea l’uomo per sopravvivere e per suo tramite il TESTO per descriversi, la QUINTESSENZA per capirsi e amarsi, l’ORGANIZZAZIONE per consolidare queste sue conquiste, e infine DIO per dare un qualche senso alla sua stessa stupida e insulsa esistenza.

Che ci fosse proprio bisogno di tutti noi, di leopardi, guglielmo scotilancia, michelangelo, paolo conte la patria e dio, solo per giustificare la stabilità di quattro molecole...!

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Ora. lasciamo pur perdere il riferimento alla religione, che sa troppo di neomarxismo e oppio dei popoli e ha senz’altro offeso qualcuno, ma certo dal punto di vista dell’RNA, e della vita in generale, e del regno animale, e forse anche della specie umana in particolare, storie e sviluppi affascinanti come arte musica e filosofia e letteratura non sono che accidenti, effetti collaterali. La vita stessa, peraltro, per la storia della Sequenza che tutto governa, è solo un effetto collaterale.

Sì: un sistema complesso che interagisce si mantiene e riproduce genera e richiede una lettura in una dimensione altra, che riconosce regole di sviluppo proprie e diverse, genera un meta-sistema.

Insomma, sviluppo e storia di sistemi complessi generano nuovi agenti, organismi e meta-realtà che nascono crescono e paiono vivere di vita propria, fuori del sistema che li ha generati − sopra? − comunque in un altro dominio del pensabile, e della realtà. Un curioso, emozionante gioco di effetti collaterali. Effetti collaterali non previsti, non prevedibili dall’esame del sistema che li ha generati, dalle relazioni che lo definiscono, dalle regole che lo guidano, dalla descrizione formale anche più completa e organica possibile. Non prevedibili perché germogliano e crescono in territori inattesi, normati da altri criteri forze e destini. Gli studiosi di sistemi complessi hanno coniato il termine “proprietà emergenti” per indicare gli aspetti che danno luogo a questi effetti collaterali, aspetti che appaiono, emergono appunto, solo quando un sistema complesso viene visto nel suo insieme, dal di fuori, nei suoi rapporti con sistemi più vasti e nel suo comportamento in ambiti non previsti dalle sue relazioni e regole interne.

E dall’impressionante sviluppo della potenza cognitiva, cibernetica e comportamentale del cervello nasce come effetto collaterale una inattesa e affascinante mistura di potere interpretativo, emozioni e motivazioni, memoria e desiderio, gioia e dolore, e coscienza del capire e del sentire, magoni e felicità, amore passione e volontà, curiosità e paura, meraviglia e sdegno, ardore e impegno. Una mistura che è un nuovo livello di vita, interiore e superiore ma non reclusa e esclusa, anzi capace di incidere sulla realtà e sul mondo, e in modo nuovo e diverso, secondo disegni e fini, desideri e ideali.

E ancora, da questa mistura di sguardi aneliti e fantasie sboccia un’imprevista nuova dimensione di vita, la necessità di altro, illimitato, nel tempo e nello spazio, l’esser fuori di sé, il sapersi nell’eterno e nell’infinito... Un curioso effetto collaterale, per cui è difficile trovare un nome più bello e appropriato di “anima”.

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E tutto questo è “meta”.

La logica che governa il sistema non serve a comprendere spiegare interpretare la lettura, il meta-sistema. Eppure quest’ultimo, e la sua logica e la sua vita, si reggono sulla logica e vita del sistema sottostante.

Questo è meta. Questo è Gödel. Viviamo in un mondo pieno di sistemi complessi, che per la loro complessità sono qualcosa di diverso dalla somma dei loro componenti, e invadono territori che i loro elementi non conoscono. Proprietà emergenti, che l’analisi degli elementi costitutivi di un sistema − e delle loro relazioni reciproche − non può predire.

E allora occorre dimenticare che oggetti e sistemi finiscono dove finiscono, e cogliere e comprendere anche il confine che li unisce alla (non separa dalla) realtà circostante: la mela è verde solo perché la luce la colpisce e qualcuno la osserva; non è una sua proprietà, e comunque non è rilevante per descrivere e comprendere la sua struttura, la sua organizzazione, il suo equilibrio. Eppure, di fuori è verde, e non conosciamo la mela se non la conosciamo anche per questo, per ciò che nasce e resta fuori da lei, eppure contribuisce a definirla nella realtà.

Stupidaggini? certo, finché riguardano solo le mele. Ma un po’ inquietanti, se tutto ciò sconquassa anche la logica, la matematica, ciò che per molti appare più avvicinarsi alla perfezione.

Gödel ha sconvolto il pensiero moderno dimostrando un teorema che licitava più o meno: “non può esistere un sistema logico e/o matematico che sia al tempo stesso coerente e completo”. Ovvero: se un sistema logico vuole essere coerente deve accettare di applicarsi solo ad un ambito limitato e se vuol essere completo conterrà senz'altro incoerenze.

Un piccolo sforzo di concentrazione, per intuire il teorema, con un esempio banale: in un sistema logico che permette di decidere se una frase (proposizione) è vera o falsa con assoluta sicurezza e coerenza, che succede di una proposizione come “questa affermazione (questa stessa frase) è falsa”, ovvero una proposizione che affermi la falsità di se stessa? Una tale proposizione è del tutto accettabile e corretta, grammaticalmente sintatticamente e (in astratto) logicamente. Solo, non è possibile definirne la verità/falsità. E allora un sistema logico che attribuisce valore di vero/falso alle proposizioni, non potendo classificare questa proposizione né tra quelle vere né tra quelle false, dovrà riconoscere che esistono proposizioni alle quali non si può applicare (se vuol essere coerente deve essere incompleto): non si applica a quelle proposizioni che parlano di proposizioni (metaproposizioni) per le quali occorre una logica diversa e complementare (metalogica).

Qualcuno, non convinto, sosterrà che il sistema logico si può benissimo applicare a metaproposizioni. Eccone una adatta: “la affermazione 'la neve è bianca' è vera”. Proposizione logica, sintatticamente corretta, vera, e parla di verità di altre proposizioni. E allora proviamoci: “La affermazione ‘questa frase (questa stessa) è falsa’ non è definibile come vera o falsa perché è vera se è falsa e falsa se è vera, ergo è assolutamente possibile che sia sia falsa che vera”. Perfetto, ora abbiamo una proposizione logica, grammaticalmente corretta, sintatticamente corretta e vera, che parla di verità e si applica ad altre proposizioni. Ce l’abbiamo fatta. Ora la logica è completa.

Piccolo problema: la logica ora ammette come vera una proposizione vera, che contesta la capacità della logica stessa di giudicare la verità/falsità di una proposizione che le appartiene. La nostra logica ora è completa, ma incoerente, per sua stessa affermazione. Era meglio la logica incompleta di prima?

Sì, va bene, giochi di parole…

No, qui non è luogo per riportare la dimostrazione rigorosa del teorema di Gödel, ma non sono solo giochi di parole, e la questione è la portata filosofica del teorema: non solo la matematica, la logica − e la ragione che su esse si basa − non sono perfette (ahi!), ma la logica anche più coerente, rigorosa e raffinata che si possa applicare alla analisi di un sistema non può applicarsi tale e quale alle interazioni del sistema con l'esterno. L'analisi corretta dei componenti e delle dinamiche interne di un sistema non è approccio che permetta di valutare le interazioni del sistema stesso con un altro sistema, o il suo stesso presentarsi in una dimensione cognitiva o ontologica diversa.

Si devono cedere le armi, allora?

No, ma va sviluppato un approccio di meta-analisi, capace di guardare da fuori il sistema, pur senza uscirne, con nuovi canoni che poco o nulla sapranno dire delle logiche interne del sistema, e ne trascureranno dettagli non rilevanti e non interpretabili nella nuova ottica, ma correttamente descriveranno e interpreteranno e capiranno i modi i tempi i ruoli i comportamenti del sistema nella realtà più vasta di cui fa parte e nella nuova dimensione che ha voluto invadere.

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E si torna all’infinito. Al tutto che racchiude e non sa andare oltre, maniaco di coerenza, e all’infinito che invece non si arresta, e dove le vecchie regole non reggono più ne trova di nuove, alla capacità di sguardi molteplici che rinunciano alla sicurezza di coerenze universali ma sanno dare letture sfaccettate, che non vedono limiti ma angolazioni e prospettive, che non amputano l’anima della sua libertà.

E’ arduo, in ogni caso. Difficile rinunciare alla protezione di quattro mura, che limitano e garantiscono un tutto, piccolo forse ma intero. Difficile non sognare la libertà come uno spazio più grande ma comunque protetto, un castello grande, e il suo immenso giardino fiorito... Ma c’è un’altra libertà, quella degli Indiani d’America, che morivano se chiusi tra quattro mura, perché l’occhio deve andar lontano, la pelle sentire il vento, lo spirito viaggiare libero.

L’aspirazione all’infinito è meta, è consapevolezza dell’anima, è spingersi oltre, fuori di sé, è vivere e sentirsi vivere. E’ superare il limite tra sé e non sé, espandersi e trascendersi. E’ volare e godersi il volo, ma restando se stessi: è la naturalità del volo quando ci capita nel sogno, piacevole scoperta che non contrasta col proprio essere e la propria idea di sé. E’ trascendersi nello spazio e nel tempo, ma in modo intensamente dialettico: non è Peter Pan, non è volare via, è vivere, saper volare e vedersi dal di fuori, vedere il mondo. Non è essere fuori. E’ oltre, è meta. E’ essere anche fuori. Si avverte la contraddizione ma anche l’assoluta realtà e conciliabilità della contraddizione. Questo è il fascino della dialettica che non chiede all’ontologia di essere statica, e così dà (ridà) vita alla realtà.

Pirandello diceva “la vita o la si vive o la si scrive”... Sarà vero, in senso stretto, ma forse l’anima sta proprio nel conciliare le due cose: forse tutt’e due, sentire e leggere e scrivere la vita, mentre la si vive.

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Se si prova a fare gli scienziati, oggi, bisogna sapersi destreggiare tra due approcci contrastanti. E’ così evidente che i processi biologici che avvengono in ogni organismo sono utili e opportuni per la sopravvivenza del singolo o della specie, che vien facile soffermarsi a descriverne la mirabile organizzazione e interazione nel permettere gli incredibili equilibri, gli intricati processi della vita. Vien facile cioè sottolineare lo “scopo” che appare guidare ogni processo, e dimenticare che una vera spiegazione deve invece chiarire quali forze e energie lo alimentino e quali meccanismi lo rendano possibile e lo attuino (le «cause»).

Per il neuroscienziato è ancora più difficile, perché forze e meccanismi sono molteplici, ingarbugliati e nascosti dalla complessità anatomica e funzionale del cervello, mentre l’utilità di ogni aspetto della elaborazione neuronale per uno specifico obiettivo è più facilmente riconoscibile e rintracciabile. Vien facile ragionare che ogni risposta, prodotta dal sistema nervoso, sia avviata e guidata da stimoli che gli pervengono, e i circuiti e i modi di elaborazione siano selezionati in modo da dare la risposta più adatta e opportuna ad ogni stimolo, e per capirne qualcosa si debba seguire il percorso stimolo-risposta, attenti a non perdersi per strada. E finisce che per capirne qualcosa si ragiona a rovescio, dal comportamento dell’uomo a ciò che lo determina e lo guida, come se il cervello fosse una scatola nera il cui funzionamento si possa comprendere studiando le risposte che genera agli stimoli che riceve.

Ma questo porta fuori strada. Perché non è così; o meglio, per un verso è così, per l’altro no. Dal punto di vista meccanicistico è un po’ così: per ogni segnale che si muove nel cervello è possibile rintracciare un segnale, vicino o lontano nello spazio e nel tempo, che lo ha determinato, direttamente o attraverso mediazioni più o meno complesse. Ma se si guarda al comportamento umano, appare chiaro che la somma degli stimoli, e delle cause, non permette di prevederlo, e neppure di rintracciare i percorsi e i meccanismi che lo hanno generato. Per comprenderlo occorre accettare che qualcosa, nel cervello o altrove, abbia elaborato e accumulato e rimacinato informazioni, lungi dal considerarle e pesarle solo in funzione della loro rilevanza a fini comportamentali e pratici, e da questo qualcosa tragga ogni momento la forza che genera gesti e modifica le risposte che ci si attenderebbe sulla base degli stimoli del presente e del vicino passato. Un qualcosa, nel cervello o altrove, capace di generare forze motivazionali autonome, capace di iniziativa, di scelta, di creatività.

Bisogna ricominciare dalla parte giusta, dunque. In avanti, non all’indietro. Dalle informazioni che arrivano al cervello e dall’uso che esso ne fa. E allora ci si imbatte in biforcazioni, divagazioni e effetti collaterali che caratterizzano fortemente il funzionamento del cervello, e generano proprietà emergenti e processi che si dipartono dal percorso stimolo-risposta, per quanto complesso possa essere. Effetti collaterali che appaiono forse poco rilevanti rispetto alla risposta agli stimoli, ma sono indispensabili per comprendere il comportamento dell’uomo, le forze che lo guidano, i suoi aspetti creativi. Effetti collaterali che, di fatto, dell’uomo costituiscono la peculiarità, e ne intridono profondamente la vita regalandole inesplorati spazi di espansione in ambiti cognitivi etici e estetici.

Qui sta il “meta” del cervello. Perché per gran parte si diletta a rielaborare e ridisegnare e reinterpretare il mondo secondo i suoi gusti molteplici e senza fini pratici, a generar schizzi, impressioni, letture e metafore della realtà. E quando mille metafore vivono e premono nel cervello, e muovono gesti che non sono più solo scelte tra risposte possibili, allora nasce qualcosa che non si può studiare allo stesso modo, non bastano più le cause, il meccanicismo elementare. Occorre uno sguardo diverso per capire, occorrono idee, fini, obiettivi e forse sogni e fantasie, a spiegare gesti che non son più risposte, ma iniziative autonome.

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Quelli più furbi tra noi (o meglio quelli più furbi tra quelli non sufficientemente furbi da non porsi il problema, ché si vive benissimo fregandosene) hanno guardato da vicino lo schermo del televisore, e hanno visto che ogni puntino in realtà è diviso in tre spicchi, uno blu uno verde uno rosso, più o meno accesi più o meno intensi. E ne nascono tutti i colori. Certo, ovvio che nascano i colori, perché l’occhio proprio così li costruisce: una cellula riconosce la luce rossa, una quella blu, una quella verde, ed è compito di altre cellule nervose combinare l’informazione per decidere il colore di ogni punto del campo visivo.

E poi, riconosciuto il colore di ogni punto, l’immagine si proietta (capovolta! questo lo sappiamo bene tutti) sulla parte posteriore della corteccia cerebrale, vero? non ci hanno spiegato così sul sussidiario alla scuola media? − ce ne fosse uno che non stampa la candela rovesciata sul fondo della testa…

No, nessuna immagine vaga per il cervello. E tantomeno dentro di noi c’è un “intelletto” che guardi questa immagine, la interpreti, la memorizzi e la possa richiamare quando serve.

Ogni cellula incaricata di riconoscere uno stimolo (recettore) genera un segnale elettrico. Come tale questo segnale si ferma lì − sulla pelle, nella retina, nella mucosa del naso. E non si riproduce uguale in nessuna parte del cervello. Già prima di uscire dall’occhio e avviarsi verso il sistema nervoso centrale l’informazione visiva è scomposta in aspetti diversi − condizioni generali di luce, contrasti locali, rapporti di colore − e non è quindi solo trasdotta (trasformata da luce a attività elettrica), ma rielaborata secondo criteri precisi, canoni di lettura, non trasmessa e riprodotta ma tradotta, raccontata. E questo avviene per qualunque stimolo esterno: un fotone che colpisce una cellula della retina, una vibrazione sonora che eccita una cellula della coclea, una molecola di profumo catturata da una cellula olfattiva della mucosa del naso, una terminazione nervosa dolorifica stiracchiata da una bolla d’aria nell’intestino. Il recettore genera un segnale che più o meno direttamente raggiunge numerosi neuroni nel sistema nervoso, e su ognuno di essi è messo in relazione, comparato, sommato, integrato, con altri segnali che provengono da cellule sensoriali simili e da altri numerosi neuroni. A procedere verso ulteriori tappe neuronali sono i risultati di queste elaborazioni.

Già nella retina, per esempio, la maggior parte dei neuroni non risponde alla intensità e al colore della luce che colpisce un punto della retina, ma alla differenza di luce e/o di colore tra questo punto e i vicini... Non è un caso che pur con il migliore addestramento il pittore non possa scegliere sulla tavolozza il colore esatto che vuole in un punto del quadro, tra altri colori, perché noi non possiamo “vedere” un colore in modo indipendente dal contesto.

Ed ecco che ci si distrae, al solito… Viene spontaneo chiedersi perché mai debba essere così, qual è il vantaggio di tutto ciò. Beh, non è difficile giustificare l’affermazione che molto più utile è vedere differenze e rapporti di colore, piuttosto che valori assoluti. Questo ci permette ad esempio di riconoscere un frutto maturo da uno acerbo, o marcio, sia alla luce bianca del sole a mezzogiorno che in quella rossa del tramonto... E se la luce si abbassa, non è certo utile vedere più scuri tutti i punti dell’immagine che abbiamo davanti. E’ meglio accorgersi che c’è meno luce (sommando il segnale che viene da diversi punti della retina) ma che la composizione dell’immagine è essenzialmente la stessa (le differenze tra punti vicini non sono poi tanto cambiate). Nulla di strano, che madre natura abbia selezionato meccanismi sensoriali capaci di queste elaborazioni.

Ma riusciamo a dimenticare per un momento l’utilità pratica di queste manipolazioni che il nostro sistema nervoso fa dei dati sensoriali? Possiamo provare a lasciarci incuriosire dai meccanismi sottostanti, piuttosto che dai loro fini? Vale la pena, ne derivano conseguenze inattese e affascinanti.

Sì, in particolare diventa ovvio perché noi non sappiamo guardare, ascoltare, percepire, elementi che si presentino insieme senza coglierne e elaborarne le relazioni. Diventa inevitabile che per noi non esistano punti luminosi ma forme, non esistano vibrazioni ma suoni, non suoni ma melodie o parole possibili, non parole ma discorsi o poesie.

E allora dimentichiamo per un momento che cosa sia più o meno utile, e proviamo a vedere come funziona tutto questo, per quale motivo (causa, non fine) nel cervello non entri la realtà ma una sua rielaborazione: sì, la realtà si affaccia soltanto, questi processi non si applicano a posteriori ad informazioni incamerate e salvate, non sono elaborazioni “cognitive”, ma sono il risultato di un calcolo automatico “precablato” nella rete di connessioni neuronali del cervello, un calcolo assolutamente inconsapevole e che avviene spesso prima ancora che i dati sensoriali raggiungano la corteccia cerebrale. E, senza offesa, avvengono anche nella testa di un topo.

Ognuno della miriade di segnali sensoriali che arrivano ogni istante al cervello raggiunge dunque numerosi neuroni, e su ognuno di essi è combinato con altri segnali simili, con significato analogo oppure completamente diverso perché provengono da altri sistemi neuronali; su ognuno di essi entra a far parte di un calcolo diverso e specifico.

Se avessimo cento boyscout a disposizione per esplorare un bosco, credo che nessuno penserebbe di assegnare ad ognuno un centesimo di bosco con l’incarico di osservare tutto: meglio certo dividerli in un certo numero di squadre, assegnando una porzione più grossa del bosco ad ogni squadra e incaricando ognuno dei componenti di osservare uno specifico aspetto: struttura del suolo, percorsi praticabili, acqua, vegetazione, animali, funghi, frutti... le informazioni ricavate saranno molto più facili da elaborare e interpretare − anzi in buona parte già interpretate. Soprattutto, dopo un certo numero di sortite, i ragazzi incaricati dei funghi potranno anche imparare a riconoscere quelli buoni da quelli velenosi, e gli incaricati della vegetazione a riconoscere le specie degli alberi. Insomma se molti guardano le stesse cose, ma ognuno in cerca di aspetti e informazioni diverse, la miriade di dati insensati diviene una interpretazione (o numerose concomitanti interpretazioni) della realtà.

Questo modo di trattare i segnali si estende a tutta l’elaborazione da parte del sistema nervoso. Ogni cellula nervosa può avere in genere qualche decina di migliaia di contatti “sinaptici” attraverso i quali altri neuroni gli trasmettono segnali. Ogni neurone raccoglie una notevole quantità di informazioni, e non in modo casuale: le connessioni sono tali che l’attivazione di ogni cellula nervosa ha un “significato”, indica che nell’insieme degli stimoli che raggiungono il cervello è presente una certa caratteristica, una relazione, un principio organizzativo, una sequenza. Ancora a proposito della vista, nella corteccia visiva ci sono neuroni che, ricevendo informazioni da un certo numero di recettori, sistemati nella retina secondo una precisa organizzazione spaziale, sono attivi in modo coordinato se in una regione del campo visivo è presente un margine tra due colori o due diversi livelli di grigio; altri neuroni, secondo lo stesso principio riconoscono una linea orizzontale, o verticale, o obliqua. Combinando le informazioni che questi neuroni hanno elaborato, altre cellule rilevano la presenza di figure geometriche (quadrati triangoli cerchi) o di figure ancora più complesse come stelle, bersagli… Raffinando via via questo gioco di riconoscimento di caratteristiche e relazioni, si giunge a neuroni, più lontani dalle aree visive primarie occipitali, e spostati più avanti e lateralmente nella porzione inferiore del lobo temporale, incaricati di elaborazione ancor più “astratta” o generale, capaci di riconoscere nell’immagine visiva oggetti e forme complesse o addirittura qualsiasi combinazione di elementi nei quali si possa intuire un viso umano o una sua espressione − :o) :-( :-p ^__^ (sorriso, broncio, linguaccia, sorriso). Il bimbo di pochi mesi, appena comincia a vedere, è contento − e sorride − se gli mettiamo davanti un faccino . E guardando le nuvole, se appena è possibile vediamo visi, sorrisi e profili. E non è un caso.

Così ogni cellula nervosa nel cervello, a seconda dei segnali che le pervengono e di come li elabora, dà una sua sintesi e lettura del piccolo pezzo di mondo che la riguarda, e manda questo risultato ad altre centinaia, migliaia di neuroni, che a loro volta svolgono le stesse operazioni su informazioni analoghe in arrivo da migliaia di altri neuroni. Il dato sensoriale crudo (suono, immagine, profumo...) viene digerito e scomposto in mille modi diversi da mille strutture cerebrali diverse (non più un’immagine ma linee, colori, masse, volumi, contrasti di luce e toni, figure geometriche e visi...). Produce una specifica attività in milioni di specifici neuroni e connessioni. Quindi, ad ogni esperienza corrisponde un insieme di schemi di attività di gruppi specifici di neuroni. Ogni schema rappresenta un tratto specifico, una caratteristica, un modo di vedere il dato sensoriale: il cervello ha inventato l’architettura parallela − in cui l’informazione è distribuita, ed elaborata, in mille rivoli in parallelo, appunto − ben prima degli informatici.

E l’elaborazione parallela permette di estrarre contemporaneamente caratteristiche e relazioni diverse in circuiti diversi. Nel nostro cervello non vivono “fotografie” delle nostre esperienze ma gli elementi che le compongono e le relazioni tra gli elementi, e le relazioni tra queste relazioni. La realtà è ridisegnata e interpretata in mille modi, da mille angolazioni, con mille prospettive e mille sguardi contemporaneamente.

Il cervello ininterrottamente rielabora l’informazione, e ad ogni passaggio essa è stravolta scomposta e riunificata. Ogni elemento e dettaglio è preservato solo nelle sue relazioni e rilevanze. Ma parallelamente l’informazione acquista spessore e nuove dimensioni. Ogni sistema neurale si può considerare un organo che opera come schema trascendentale, in quanto riceve informazione e la riarrangia estraendo le caratteristiche specifiche cui “è interessato”. E in ogni sistema neuronale che invade, l’informazione diviene concerto di colori e melodie proprie di quel sistema.

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Questa capacità di trasformare i dati sensoriali in una rappresentazione di elementi e relazioni ha una utilità abbastanza ovvia, perché permette il riconoscimento di oggetti e situazioni in modo da evocare la risposta comportamentale più adatta. E questa modalità di elaborazione caratterizza il cervello di tutti gli animali che ne abbiano uno. La differenza fondamentale nell’uomo è non solo e non tanto la massa (e il numero di neuroni e di circuiti) delle regioni della corteccia cerebrale che si occupano di queste letture combinate e “interpretate” di una informazione sensoriale, ma nell’enorme sviluppo, rispetto ad ogni altro animale, delle aree associative multimodali della corteccia, regioni nelle quali vengono messe in relazione tra loro le informazioni che provengono da modalità sensoriali diverse e hanno rilevanza diversa: informazioni visive, uditive, viscerali, motorie, emotive...

Di questo parleremo più avanti. Ma già di qui ci si propone una prospettiva piuttosto insolita. Un complicatissimo macchinario neuronale organizzato per garantire la risposta comportamentale più adeguata produce come effetto collaterale, e per certi versi come byproduct, prezioso prodotto marginale, una rappresentazione, o meglio una sfaccettata serie di rappresentazioni, della realtà. Relazioni tra oggetti ed eventi vengono rappresentate in schemi di attivazione neuronale, che possono venir riconosciuti quando si ripetono, intuiti per analogia in altre situazioni, generalizzati a guidare una lettura predittiva della realtà, e dunque da un lato impiegati con grande profitto per l’ottimizzazione del comportamento, dall’altro raccolti e relazionati a riprodurre il mondo e le sue dinamiche, a generare una nuova dimensione della vita, una metabiologia della rappresentazione della realtà, via via più complessa a mano a mano che, salendo nella scala evolutiva, dimensione e organizzazione della corteccia cerebrale si espandono e complicano.

Già nel comportamento animale, dunque, sorge il dubbio che, con lo sviluppo della corteccia cerebrale, lo schema stimolo-risposta non basti più, e neppure sia il paradigma più appropriato, per capire che sta succedendo: certo, vi sono risposte riflesse, vi sono cablature nel cervello che producono risposte prevedibili, ma l’informazione in ingresso non controlla solo le risposte; si coagula in una rappresentazione sfaccettata, mutevole e formicolante della realtà, e di qui impulsi e controlli inattesi si generano, capaci di evocare comportamenti che nessuno degli stimoli presenti o passati sa giustificare da solo. Se si vuol restare ancorati all’idea che il sistema nervoso serve a produrre risposte e comportamenti adeguati, ebbene, ci si fermi pur lì. Ma si ammetta che a furia di complicare le circuiterie la natura si è trovata di fronte a qualcosa di nuovo: un vissuto neurale costruito dalle esperienze sensoriali rielaborate, capace di affiancarsi e sostituirsi agli stimoli presenti nel guidare e determinare il comportamento.

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La vita, ne abbiamo parlato, è sostenuta da una forza cosmica. E’ l’energia potenziale racchiusa nelle molecole, che preme per disperdersi nel disordine entropico: la vita l’aiuta con grande efficienza a superare barriere e vincoli, a sottrarsi a immutabili e ordinati balletti, e poiché nell’aiutare la forza la vita si sostiene e si riproduce − e beh, perché non approfittarne? − la vita si perpetua e trova strade sempre nuove. Per certi versi la vita è sostenuta dalla sua stessa capacità di perpetuarsi e riprodursi, garantendo una efficiente produzione di entropia, e quindi ogni nuova trovata che migliori la capacità di sopravvivenza, l’adeguatezza a ambienti difficili, mutevoli, insidiosi, tenderà a fissarsi, evolutivamente. La combinazione di sofisticati meccanismi e processi di controllo − la potenza cibernetica − nell’organismo vivente, e il balzo rappresentato dal cervello nella complessità e versatilità di tale controllo, ancor meglio aiutano la forza a liberarsi. E se così si straborda dalla cibernetica e si invadono i campi immateriali dell’informazione, della rappresentazione, di un vissuto del mondo, e nasce la possibilità di un comportamento predittivo e imprevedibile, ben venga questa fuga dalla biologia verso il sapere, per quanto rozzo e rudimentale possa essere.

La forza ne ha vantaggio. E così come sostiene la vita e la biologia, la forza sarà ben felice di sostenere metabiologia e sapienza.

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