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Fisiologia dell’anima - o, se preferisci, - neuroni & anima
Riccardo Fesce - tutti i diritti riservati (editori e agenti interessati, inviare una mail)
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VIII

GIOIA E DOLORE, CROCE E DELIZIA − emozioni

Ora basta parlare di cervello. Parliamo un po’ di cuore.

Sì, di quelle sensazioni che nascono giù profonde nel cuore, si diffondono allo stomaco, e se si cerca di tenerle dentro magari scendono nella pancia, ma se non si possono tenere salgono e bloccano la gola...

Si ha un bel cercare di capirle, e provare a controllarle e guidarle, ma per lo più si deve rassegnarsi a lasciarle nascere crescere muoversi e scuoterci l’anima. Guardarle, magari, e gustarle per sentirsi vivi. O chiuderle là in fondo, fingere di non sentirle chiamare e strepitare, guardare altrove e continuare a giocare con le cose, i compiti, i progetti della vita.

Emozioni. Da fisiologo non ho dubbi: il cuore sta lì solo a svolgere il suo ruolo idraulico; è solo una pompa, questione di tubature: è nel cervello, nei neuroni che le emozioni si agitano...

Ma questa storia dell’idraulica non è che un esempio della spocchia degli scienziati, saccentoni che dall’alto degli esperimenti di qualcun altro, che gli par di aver capito, sono pronti a rinnegare radici e secoli di storia del pensiero come miti infantili. Eppure la storia ha le sue vendette. Espropriato il cuore delle emozioni, arrogate a sé dall’onnipotente e onnisciente sistema nervoso, verso l’inizio del Novecento qualche scienziato come Lange, un po’ più vivace di altri, quasi in un rigurgito di cuorismo, suggerì una lettura nuova e provocatoria delle emozioni: “non tremiamo perché abbiamo paura, non piangiamo perché siamo tristi; piuttosto, abbiamo paura perché tremiamo e siamo tristi perché piangiamo”. E’ il corpo, insomma, il cuore a provare emozioni. Noi, il cervello, semplicemente ce ne accorgiamo.

Non solo un calembour. C’è un’intuizione profonda in questa affermazione. Moti profondi si agitano in parti nascoste del corpo, oltre che dell’anima, e guidano reazioni che non comandiamo noi, reazioni che talora neppure capiamo.

Paura, angoscia. Talora non se ne capisce neppure il motivo. Sensazione confusa e opprimente, quasi fisica. Ma non meno pervasiva.

Talvolta viene anche da ridere, senza volere, talora si ride e si vorrebbe non farlo, o quasi non ci si crede, di esser lì a ridere mentre si vorrebbe piangere, e combattere, o odiare, o perdersi...

Fatto sta che dolore, paura, malessere e benessere, piacere stupore e gioia evocano risposte viscerali e comportamentali profonde e dirette, prima ancora che uno “se ne accorga”, risposte emotive non diverse da quelle degli animali, non volute non decise talora non comprese finché, elaborate solo successivamente a livello cognitivo, ce le sappiamo raccontare.

Sì, l’inconscio, il subconscio, quel freudiano ES selvaggio che non sente ragioni, ci ha affascinato tutti. Ma è curioso quanto ciò che se ne pensa assomigli alle parole di Cushing, nel 1929, quando parla di una struttura nervosa ben precisa e definita, l’ipotalamo, che controlla tutte le funzioni vegetative:

“ Qui in questo recondito sito, non più grosso di un’ unghia, si nasconde la sorgente dell’esistenza primitiva − vegetativa, emotiva, riproduttiva − sulla quale l’uomo è giunto, con maggiore o minor successo, a sovrapporre una corteccia di inibizioni ”

Cannon, qualche anno dopo, scopriva come l’ipotalamo, incaricato di controllare e gestire le risposte fisiologiche, vegetative e viscerali, e di sollecitare comportamenti necessari alla vita vegetativa (nutrirsi, bere, dormire...) avesse la capacità di avviare risposte orientate e coordinate, come la predisposizione di tutto l’organismo alla lotta o alla fuga, o come una reazione rabbiosa a stimoli irritanti; e mostrava che in mancanza di freno e controllo da parte del cervello, della corteccia, queste reazioni divengono spropositate e incontrollate (la “sham rage”, rabbia selvaggia, del decerebrato).

L’ipotalamo è il centro fondamentale di controllo di tutti i parametri fisiologici: temperatura, glicemia, pH (acidità/basicità del plasma), livelli di ossigeno e anidride carbonica, concentrazione degli elettroliti (sodio, potassio, calcio, fosfati), volume d’acqua corporea, livelli ormonali, attività cardiaca e respiratoria, pressione arteriosa, flusso di sangue ai vari organi e sistemi, risposte e attività sessuali...

La sua funzione di controllo si esercita attraverso i sistemi neuronali, e in particolare attraverso il sistema nervoso vegetativo (simpatico e parasimpatico, è lui che scatena la scarica di adrenalina dalle surrenali), ma non soltanto: è anche il centro fondamentale di controllo della produzione degli ormoni, in parte direttamente e in parte attraverso la ghiandola pituitaria (ipofisi).

Tutto questo non esaurisce le funzioni dell’ipotalamo, perché in un organismo complesso non bastano risposte vegetative e ormonali per permettere la sopravvivenza: occorre procurarsi il cibo, e l’acqua, e ingerirli, occorre proteggersi dal caldo e dal freddo, occorre cioè che vengano messi in atto comportamenti programmati e volontari. E dunque l’ipotalamo è in grado di generare input alla corteccia che chiedono l’avvio di tali comportamenti. Negli animali, la forza di queste richieste dell’ipotalamo è quasi incontrastata: difficile trattenere un topo dal mangiare se ha fame; e messo in una gabbia con una femmina in calore non perderà troppo tempo a valutare l’opportunità di un approccio... Le possibilità di mediare, trattenere gli impulsi vegetativi ipotalamici e contrapporvi altri comportamenti, crescono con lo sviluppo della corteccia negli animali superiori. E, ovviamente, il quadro risulta totalmente diverso per l’uomo, sul cui comportamento influiscono forze motivazionali ben più numerose e variegate.

Le risposte prodotte direttamente dall’ipotalamo si traducono in modulazione della attività cardiaca, della pressione, della respirazione, delle attività viscerali, e costituiscono così la componente fisica, viscerale, delle emozioni.

L’ipotalamo non giustifica e racconta le emozioni da solo. Sensore di squilibri e bisogni vegetativi, è molla potente di reazioni corporee volte a ristabilire equilibri e soddisfare bisogni. Ma esigenze contrastanti, e caratteristiche della situazione esterna, dettano scelte e modi. E circuiti capaci di plasticità e apprendimento addestrano a modi e mediazioni più opportuni ed efficaci. Cruciale in questo è la capacità di riconoscere situazioni di pericolo individuando segnali e indicatori, e una regione specifica del sistema nervoso ha proprio questa funzione. Oggi sappiamo che semplicemente guardando fotografie di un uomo che sorride, oppure pensa, o appare incerto, o timoroso, o impaurito o addirittura terrorizzato, una porzione profonda del lobo temporale, l’amigdala, si mette a scaricare via via più intensamente, e può avviare reazioni viscerali e mimiche corrispondenti all’intensità della paura trasmessa dall’immagine. E l’amigdala apprende, e diviene capace di suscitare reazioni viscerali e corporee di ansia, angoscia e paura al solo presentarsi di segnali che abbiamo appreso ad associare al pericolo di dolori, frustrazioni, paure. Un’altra regione profonda, anch’essa capace di apprendimento, scarica in risposta alla risoluzione di uno stato di bisogno, o in presenza di un premio o gratificazione; è il nucleo accumbens, in cui altre cellule scaricano quando la possibilità di tale risoluzione o premio si presenta, cellule che imparano a riconoscere ogni segnale che suggerisca tale possibilità.

Un’azione concertata e complessa di ipotalamo, “controllore vegetativo della sopravvivenza”, amigdala, “sistema d’allarme”, e dell’accumbens, “cercatore di gioie”, muove un clima complessivo e mutevole nell’attività di regioni profonde del sistema nervoso, che si traduce in risposte viscerali − batticuore, affanno, accelerazioni e blocchi gastrointestinali − pallore, sudor freddo, tremori muscolari, pianto, alterazioni della voce, della mimica del viso e della postura, che preparano a reagire o a subire, e che comunicano senza ambiguità a chi ci veda le nostre emozioni, e le comunicano tanto efficacemente che non solo gli altri le avvertono, ma spesso faticano a non lasciarsene contagiare.

Sì, l’emozione si agita in parti del sistema nervoso su cui non abbiamo controllo razionale e consapevole, parti e circuiti che condividiamo con tutti gli animali che hanno un sistema nervoso abbastanza sviluppato. Sono sistemi capaci di guidare risposte complesse che da un lato preparano l’organismo alla reazione appropriata e dall’altro comunicano ai nostri simili ciò che avviene dentro di noi. Sì, perché tremore, pallore, sudore freddo, sensazione di blocco dello stomaco e dell’intestino (ehi, la digestione si blocca davvero!) e batticuore e agitazione, fino a non sentir più fatica e paura e dolore e limiti, non sono reazioni inutili di un’anima spersa e impaurita che ha perso il controllo del corpo. No, sono tutte reazioni che hanno un senso e un valore fisiologico: il cuore pompa più forte, il sangue si sposta da dove non serve, dalla pelle − che divien pallida e fredda − e dall’intestino, ai muscoli, e al fegato che mette a disposizione le sue riserve di zucchero; la pelle suda per disperdere il calore che i muscoli attivati nella lotta, o nella fuga, producono; le regioni del tronco encefalico che risvegliano tutta la corteccia, allertandola, sono attivate intensamente, e i sistemi che possono fermare l’azione, lamentando fatica e dolore, sono messi a tacere. E’ quasi demoralizzante come tutto ciò sia semplice, come basti iniettare adrenalina per risvegliare tali e quali tutte queste risposte, come la sensazione di forza e invincibilità, l’immunità dalla fatica, prodotte da amfetamine e cocaina, siano facilmente spiegate dal mero potenziamento di questi circuiti nervosi, che usano principalmente noradrenalina e dopamina per trasmettere segnali tra i loro neuroni.

Ma anche la gioia, e il riso, nascono altrove, non dalle regioni dove il nostro io cosciente guarda e giudica, ma in regioni basse del sistema nervoso, nel tronco encefalico, dove producono fini modulazioni dell’attività dei muscoli del viso che comunicano le nostre emozioni agli altri, che a loro volta le intuiscono senza bisogno di leggerle e interpretarle, come gli animali capiscono un inarcamento della schiena, il pelo irto o le orecchie basse, o un grido o un lamento. Sì, quanto studio per riprodurre un sorriso un pianto un sospiro, per fingere un’emozione! E la faccia che fanno i bambini quando gli si dice di sorridere per la foto... E pensare che un emiplegico, che non muove metà del corpo, e del viso, per un ictus (una lesione della corteccia) sorride con quasi perfetta simmetria, perché il riso e il pianto sono eseguiti da là sotto. Che fatica, invece, per l’attore. Perché il linguaggio del corpo nasce dall’emozione e non dalla volontà. Spesso, per capire come produrre un sorriso o un pianto ad arte, occorre cercare di vivere l’emozione più che fingerla, e allenarsi e studiarsi per imparare ad essere credibili. E non a caso si crede più alla faccia che alle parole. Lo diceva Lella Costa in “Stanca di guerra”: che faccia fare? perché non ricorderanno quello che hai detto ma la faccia che fai, quella sì.

Eppure, al solito, ci si accorge che per l’uomo c’è di più.

C’è come ce li raccontiamo, questi movimenti sotterranei. Inietti piccole dosi di adrenalina, si accentuano le reazioni emotive: un pochino di adrenalina e soggetti a cui mostri immagini impressionanti o commoventi hanno reazioni corporee più marcate (frequenza cardiaca, sudorazione...) e ne avvertono molto più intensamente la forza emotiva. Se li avverti che l’adrenalina potenzierà le loro reazioni emotive viscerali, avranno ancora reazioni corporee più marcate, ma nonostante il batticuore non attribuiranno più un valore emotivo eccessivo alle immagini. Sì, il corpo, il sistema nervoso reagisce, fuori dal controllo della coscienza e della volontà, ma il vissuto emotivo − quello che gli anglosassoni chiamano feelings, sentimenti, in opposizione alle emotions viscerosomatiche − nascono da come raccontiamo a noi stessi quei sommovimenti sotterranei.

Nella seconda metà del ’900 è maturata una visione più dinamica, elastica, complessiva e sostenibile.

L’elaborazione cognitiva, ciò che più o meno consapevolmente pensiamo, dà luogo a situazioni di soddisfazione, delusione, attesa, paura, che non sono direttamente o associativamente reattive (non dipendono dalla presenza di uno stimolo); e queste possono dar luogo a emozioni, che non necessariamente richiedono una risposta viscerosomatica. Allo stesso modo, paure ansie angosce e gratificazione possono persistere dopo che le reazioni viscerosomatiche si sono spente. Il neuro riprende possesso! i centri superiori non si limitano a leggere il fermento emozionale nei visceri e raccontarselo, ma contribuiscono attivamente a generare mantenere e elaborare le emozioni.

Insomma si tratta di una interazione incrociata, nei due sensi, tra segnali corporei, loro interpretazioni, valore emotivo di elaborazioni cognitive e rilevanza cognitiva del vissuto emotivo. E’ un crocevia che neurologicamente corrisponde al sistema limbico (quasi un “limbo”, come si diceva, tra il vissuto corporeo e l’elaborazione cognitiva). Un sistema costituito da centri sottocorticali (ipotalamo, amigdala, accumbens e altre strutture) e dalle porzioni più antiche della corteccia, quelle più interne, quelle che anche negli animali sorreggono una, seppur limitata, rilevanza emotiva di risposte non banalmente associative, ma legate a valutazioni cognitive (calcolo del possibile sviluppo di una situazione di pericolo o di benessere). Identificata l’interazione tra regioni d’allarme (amigdala), di attesa e riconoscimento della gratificazione (accumbens), di controllo viscerovegetativo (ipotalamo), e specifiche porzioni del cervello (quelle più antiche), si è riconosciuta la funzione di questo sistema integrato, nel suo complesso, nell’elaborare una vera e propria logica emotiva, non verbale, implicita. Una logica che nell’uomo − grazie allo sviluppo e all’estensione delle porzioni di corteccia implicate in questa elaborazione, e delle regioni vicine di integrazione con altre modalità di elaborazione − sa rapportarsi ai sistemi cognitivi coscienti per presentare una lettura coerente del vissuto emotivo, interpretabile in modo esplicito e verbale, e al tempo stesso per fornire valenza emotiva alle operazioni delle funzioni superiori cerebrali.

Un aspetto complesso di questa problematica è che la lettura del quadro emotivo da parte del sistema limbico è coerente e interpretabile ma, come l’informazione in uscita dalla corteccia visiva per quanto concerne l’informazione visiva, non è esplicita e verbale di per sé, non segue la stessa logica delle regioni che elaborano il pensiero cosciente. Si possono ingannare i meccanismi di estrazione di caratteristiche, il riconoscimento di schemi elementi e relazioni, nella corteccia visiva − avviene nelle illusioni ottiche − e allo stesso modo si possono ingannare tutte le altre regioni che elaborano altri tipi di informazione sotto il livello di coscienza. E tra queste il sistema limbico. In tutti i casi gli errori, più che essere intrinseci al calcolo da parte delle aree corticali dedicate, insorgono per lo più da errori di lettura e malintesi. Questo non è particolarmente strano, perché i processi attentivi e consapevoli nelle regioni multimodali seguono regole e percorsi logici che non sono gli stessi che governano il calcolo unimodale, e in particolare l’elaborazione emozionale da parte del sistema limbico: così nella nostra lettura razionale delle emozioni spesso leggiamo e capiamo male. D’altronde non si può dimenticare che, data la grande predominanza della comunicazione verbale nell’uomo su altre forme di comunicazione, anche i messaggi emotivi più chiari possono essere contraddetti efficacemente a parole, e non è infrequente che in tali condizioni la lettura razionale (verbale) dell’esperienza emotiva sia fortemente influenzata dalla comunicazione verbale, al punto di venir forzata in una interpretazione coerente che di fatto viola la percezione emotiva genuina. In poche parole, la percezione emotiva è governata da una logica implicita − l’intelligenza del cuore − e i suoi messaggi devono essere letti dalla razionalità, con il risultato che spesso vengono male interpretati, si perdono nella traduzione.

Forse ancor più interessante è l’altro percorso di questa comunicazione bi-direzionale tra sistema limbico e attività cognitiva: la possibilità di produrre emozioni genuine (emozioni CORPOREE, viscerali) da parte di attività puramente cognitive.

Per un verso tutti sappiamo come il semplice pensiero di qualcosa di terribile, o molto imbarazzante, o eccitante, possa riprodurre l’emozione genuina, con tutto il suo accompagnamento di batticuore, mancanza di respiro, rossore, brividi, sudorazione, attorcigliamento dei visceri, nodo alla gola... D’altra parte se tutto ciò non avviene è difficile dire che proviamo un’emozione − succede talvolta davanti al telegiornale, guardando l’ultimo esodo di rifugiati, o le vittime dell’ultima guerra o attentato terroristico o calamità naturale, di sentirsi in pena per loro ma accorgersi con una certa fastidiosa sorpresa che non proviamo poi un’emozione così intensa − sia l’abitudine, o il fatto che tutto ciò succede così lontano, o chela televisione ci mostra un tal numero di cose terribili fasulle − e di sentirsi un po’ in colpa, e di conseguenza quasi più turbati per questo che per quei fatti terribili... Ma insomma, ci dispiace, chi lo vuole negare? chi può dire che l’emozione non ci sia, e forte? solo perché il NOSTRO CORPO non risponde...

Un modo di guardare alla questione è considerare il processo di identificazione. Si è discusso del valore comunicativo delle reazioni corporee che accompagnano le emozioni. Perché funzioni questa comunicazione i centri inferiori del sistema nervoso che elaborano questi “messaggi” devono essere capaci di riprodurre le stesse reazioni viscerosomatiche che osserviamo nell’altro soggetto. Questo avviene davvero, e lo sappiamo bene. Nell’uomo, questo aggiunge alla condivisine delle emozioni un’ulteriore sensazione più complessa − e incredibilmente piacevole, − la coscienza stessa di questa condivisione emotiva, la percezione della empatia. Questo processo di identificazione, e riproduzione dello stato emotivo di un altro soggetto, funziona più o meno allo stesso modo rispetto alle nostre stesse esperienze passate e all’anticipazione di esperienze future: ricordando un’esperienza di forte impatto emotivo riproduciamo le emozioni che vivemmo allora, e lo stesso fenomeno può accompagnare l’anticipazione di esperienze future.

Così l’identificazione emotiva consiste nel riprodurre reazioni corporee. E quando il cuore denuncia un’emozione, è difficile trascurarlo. Fatto sta che le emozioni possono ben essere percepite e elaborate nel cervello, ma il sistema limbico stima la rilevanza vitale di un evento o esperienza sulla base della presenza di reazioni CORPOREE tipiche di una condizione di paura, felicità, angoscia, anticipazione, sorpresa, commozione, ilarità.

Te ne stai lì seduto a teatro e ti godi lo spettacolo. Gli attori continuano a cercare di produrre emozioni dentro di te, e la richiesta ti è sempre assolutamente chiara: qui ci si aspetta che provi tensione, là che ti commuovi, qui che tu sia triste e là sollevato. Ma talvolta provi davvero queste emozioni, talaltra onestamente no. Non è questione intellettuale, è una faccenda viscerale. Senti l’emozione quando il tuo corpo reagisce nel modo giusto, batticuore, mancanza di respiro, lacrime, riso. Ma l’aspetto affascinante è che è la tua elaborazione intellettuale di ciò che avviene sul palco è sufficiente a generare quelle reazioni corporee. E se questo avviene concludi che il lavoro è buono e gli attiri sono bravi.

Qualunque cosa nella tua attività intellettuale che ti emozioni − che venga da un’esperienza che stai vivendo, o da un ricordo o un desiderio − produce alterazioni di condizioni vegetative (battito del cuore, sudorazione, come un languore nello stomaco, un aumento o un rilasciarsi improvviso della tensione muscolare...). E’ curioso che sensazioni simili possano essere prodotte da esperienze puramente astratte: l’illuminazione quando capisci qualcosa, la leggerezza e libertà quando la musica ti avvolge, il sollievo e il benessere che accompagnano la scelta giusta, e l’atto etico... Tutte queste esperienze cognitive sono in grado di evocare le stesse risposte corporee che emozioni elementari e reattive producono, e uno avverte il dolore, la gioia, la tristezza che vi sono associate, e l’entusiasmo, l’angoscia, l’estasi, come risultato dell’interpretazione di quelle reazioni corporee da parte del sistema limbico.

Il cervello è quello che interpreta, il cervello può generare le sue stesse emozioni e rileggersele. Tutto nel cervello. Ma se non riesce a far saltellare il cuore, a soffocare la gola e annodare le budella, allora non ti accorgi neppure che sei emozionato, che desideri, che ami.

Purtroppo è vero anche il contrario. Se sei capace di produrre, con una stimolazione elettrica del neurone giusto, o con il farmaco azzeccato, la reazione corporea che accompagna la paura, il terrore o il piacere, uno proverà precisamente quella emozione, e a seconda di come la produci potrà provarla con intensità lieve o tremenda.

E’ terribilmente facile confondere l’ORIGINALE con la COPIA.

E’ terribilmente facile confondere il piacere genuino del successo, della comprensione, dell’amore, dell’incanto, dell’orgoglio e del compiacimento etico con il piacere fasullo prodotto da un farmaco che riproduce le attività corporee e cerebrali associate con il piacere.

Forse, tra l’originale e la copia la questione centrale è ancora una volta la molteplicità: non solo quello che puoi trovare anche nella copia, ma la storia dell’originale, l’emozione che ha accompagnato la sua gestazione e nascita, quello che dell’autore è rimasto permanentemente legato ad esso. La questione è forse molto simile per le emozioni, e la possibilità di riprodurle con una stimolazione elettrica o un farmaco: quanti altri aspetti cognitivi, intuizioni, ricordi, desideri e fantasie accompagnano l’emozione genuina! quanti aspetti diversi della vita interiore (e quante regioni del cervello) sono coinvolti e vibrano in concerto, o si scontrano violentemente...

Quando leggi o ascolti o studi e cerchi di capire, e finalmente scopri, comprendi. Il momento in cui intravvedi e si apre una nuova prospettiva davanti a te... E’ un piacere profondo, che invade tutto. Ma in certi momenti di benessere, fantasticando un po’ staccato dalla reatà, capita di provare qualcosa di simile, e lasciarsi ingannare... Talvolta capita dormendo: c’è un problema che non riesci a risolvere e nel sogno provi lo splendido sollievo di AVERLO RISOLTO. Poi ti svegli e ti rendi conto che era tutto così confuso nel sogno, il problema non era esattamente così, non riesci a ricordare la soluzione che avevi trovato, forse non esisteva nemmeno: non era una risposta, solo l’impressione, l’emozione che C’ERI ARRIVATO... E’ una sensazione fisica. Talvolta hai la sensazione viscerale di sapere, capire, vedere, ricordare... (“ricordare cose che altri hanno desiderato”). Come se dentro di te l’attività razionale avesse perso il controllo del pensiero, e questo si fosse abbandonato ad un torrente di emozioni che non si curano della realtà, dello spazio del tempo della logica.

Beh, nulla di patologico. Ma aiuta a capire dov’è il punto debole dell’anima, dove una punta di dolore e malattia può penetrare per scindere e dissociare lo spirito: un’anima divisa (schizo-frenia), un folle. Folle, certo, a causa di malattia o amore, per fanatismo o delusione, disorientato nello spazio, nel tempo, incapace di fronteggiare la realtà, disturbato nel pensiero perché si è persa la connessione che obbliga il pensiero a affrontare l’esperienza viscerale, affettiva; la connessione che avviluppa pensiero ed emozione, non li lascia allontanarsi sempre più uno dall’altra, lacerando l’anima.

Perché una gran parte della nostra vita si muove fuori dal nostro controllo.

E allora, ancora una volta, chi sono IO? sono quello che agisce laggiù o quello che guarda e cerca di capire?

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Parole e musica

Si parlava di memoria, la si paragonava ad un linguaggio, nel quale ogni parola assume per ognuno di noi connotazioni e valori evocativi, visivi, musicali, emotivi, affettivi personali, e via via diversi e più ricchi con il passare del tempo e l’accumularsi di esperienze.

Dunque, ognuno un linguaggio, ma linguaggio personale, individuale. Per ognuno di noi ogni parola ha suono emozione e colore diverso.

Forse allora più bello è vedere ognuno di noi come due mondi, una musica e un linguaggio che si incontrano.

Siamo un lampeggiare di accordi fluttuanti, un susseguirsi di parole possibili.

E ogni armonia, ogni frase è un momento della nostra vita. Di noi.

Ma non nel senso che resti scritto da qualche parte, per poterlo rievocare.

Nel senso che quell'accordo, quell'armonia è ora cambiato, si è legato a nuove parole e arricchito di nuovo significato. E quelle parole sono ora diverse, arricchite di emozione, legate a nuove armonie.

E mille e mille volte si ripete, e rievocando forse non riusciremo più a rivivere quel momento, quell'armonia quelle parole, perché non le abbiamo più com'erano; rivivremo qualcosa di più ricco forse, ma diverso, perché l'armonia richiamerà altre parole che allora non conosceva, ogni parola suggerirà armonie che allora non avevi mai sentito.

Siamo un linguaggio e una musica

linguaggio non di frasi dette, ma di frasi possibili

musica non scritta, ma accordi, sequenze, armonie possibili (jazz?)

linguaggio e musica che dicendosi, eseguendosi, cambiano.

E la musica vive delle sue tonalità, dei suoi ritmi, delle sue emozioni, e segue le parole ma non può dirle.

E le parole non possono dire la musica.

Noi possiamo cogliere, capire, dire, ricordare solo un infinitesimo delle combinazioni di parole e musica che si rincorrono e intrecciano nella nostra vita. Perché solo una parte dello schema di attività di tutto il cervello, che macina bisogni gratificazioni emozioni paure sogni desideri intuizioni relazioni associazioni interpretazioni idee progetti azioni, si fa sentire nelle regioni che danno vita alla coscienza e che registrano i ricordi consapevoli.

Solo questa piccola parte si avverte, si fissa e si comprende, e questo è ciò che credi di essere, ti sembra di essere.

Ma anche ciò che non affiora si registra. E ricompaiono ricordi vaghi e sfuggenti che non sono ricordi ma emozioni vagamente familiari. Molta della musica, che è le tue emozioni e la tua vita, suona in sordina e appare solo nella cadenza delle parole che ricordi come momenti del tuo io. Te ne accorgi soltanto in modo confuso, come quando ti prende il magone, che ti chiede di essere un po' triste perché hai voglia di piangere, non di piangere perché sei triste...

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Uomini e donne

C’è una differenza tra la musica e le parole, tra l’emozione con cui viviamo e lo sguardo con cui guardiamo la vita.

La musica continua sempre nuova. Non si può fermare. Permea, interpreta, esprime la realtà, non la descrive.

E’ curioso che in ogni lingua ci siano due modi molto diversi di dire che significano comunque capire: afferrare e comprendere.

Afferrare con le pinze fissare con gli spilli ed esaminare, dissezionare, violare.

Comprendere prendere dentro (e poco male se diviene allusivo) lasciar entrare lasciarsi pervadere ospitare ricreare dentro di sé sintonizzarsi.

Parole, e musica, ancora una volta.

Parole per afferrare la realtà, spiegarla, violarla.

Musica per comprendere la realtà, viverla, curarla.

E gira gira, lo capiamo tutti che afferrare è la specialità di noi uomini, comprendere la vostra di donne.

Parole e musica verso le cose, le persone, e verso i popoli diversi, le culture estranee, i mondi alieni. E non solo nel guardarli.

Che sia accettazione o intervento attivo per modificare la realtà, in entrambi i casi si possono adottare due approcci diversi, comprensivo empatico o prevaricante.

E’ Cassandra o gli Achei (chiedo scusa a chi non conosce Christa Wolf). E’ la pace o la guerra. E’ l’amore o il dominio. E’ la guerra contro il terrorismo, le guerre del golfo, contro l’occasione perduta di mezzo mondo islamico che condanna l’11 settembre, e l’occidente non ha il coraggio, o la forza, di aprire il dialogo, o consapevolmente lo rifiuta e lo chiude. Sì, è la guerra giusta, che forse tutti possiamo concepire dalla parte del più debole, ma che dalla parte del più forte possono concepire solo quelli (e non sono pochi per carità) che pensano che coi ragazzi sia giusto quanto si vuole cercare di capirli, e parlare, e amarli, e consigliarli, e ... ma certe volte un bello scappellotto risolve più di mille parole. Basta provarci: chiedi a uno se vi sono situazioni in cui alzare le mani, o anche solo la voce, risolve qualcosa che l’amore non può risolvere, e se ti dice sì sai che lui la guerra giusta la può concepire e la bandiera della pace lo mette a disagio.

E’ un caso forse che le donne siano dalla parte della pace?

Tutti sentiamo la musica.

E tutti cerchiamo di capirla e di spiegarla.

Ma la musica, anche la TUA musica, non puoi governarla, puoi indirizzarla forse, guidarla un po’, ma poi devi lasciarla libera, e farti portare.

Non la puoi dirigere con le parole.

A suonare sono sentimenti affetti emozioni profumi sensazioni sogni desideri dolore piacere. E come un sax che interviene con il suo assolo, tu con le parole puoi provare a staccare, a suggerire un ritmo diverso, un tono nuovo... Se è quello giusto, e il momento è giusto, magari poi gli altri musicisti ci stanno, seguono, e la musica cambia. Ma spesso...

Talvolta la musica parte bassa, languida, commovente, triste, avviata da una nenia nascosta, da un accordo inavvertito. E ti prende e ti colora l’anima di blue, e sarà triste quanto vuoi ma ti prende, ti coccola, ti consola: la quintessenza del magone...

E talvolta suona gioiosa, decisa e inebriante. E tutto si colora e fiorisce. Che cos’è la felicità? Che cos’è?! Si fa fatica a dirlo perché si sta al gioco della parola, e allora bisogna descrivere: che cosa, come, perché... E invece non è difficile, la felicità è quando la musica suona forte e travolgente dentro di noi. Banale? Ma la felicità è la felicità e basta! Non c’è regola con cui combinare note e accordi perché l’armonia, la melodia ti prenda di colpo e ti rapisca dalla realtà, e ti involi l’anima. E non c’è regola per creare in te l’accordo giusto, la melodia della felicità.

Non c’è regola e spesso, troppo spesso, la musica ti trascina lungo i suoi sentieri mentre le parole vorrebbero portarti altrove.

Chi sei tu? le parole o la musica?

Ognuna delle due segue la sua logica; la musica richiede armonia, la parola coerenza. La musica sa dei tuoi bisogni, dei tuoi ritmi, dei tuoi sogni segreti, e si mostra nei tuoi gesti e nei tuoi modi, si fa avvertire dagli altri e cerca sintonie e lancia messaggi e richieste; la parola vede solo una parte di tutto ciò, e guida le tue scelte consapevoli, sceglie le tue parole − anche se spesso non sa imporre il tono − e incide sulla realtà che ti sta intorno, lancia altri messaggi e richieste diverse.

E se la definizione più stringata e pregnante della schizofrenia recita “dissociazione tra sfera affettiva e cognitiva” − non esaurisce, ma coglie il punto − allora un po’ schizzati lo siamo tutti, uomini e donne.

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Forse in un modo un po’ diverso, però, perché le donne avvertono di più la musica dell’anima, sanno rinunciare a spiegarla − e a fraintenderla − quando è meglio così, e sanno seguirla e viverla e spanderla intorno.

Mi torna in mente Baghdad Café, quel goffo, dolcissimo donnone che emana calore fantasia impegno e iniziativa e riesce a impregnarne il luogo rancido e addormentato in cui capita per caso... O una frase azzeccata dal film “The Hours”, preso a pezzi una volta sull’aereo. La mamma: let’s make a cake for daddy to let him know that we love him... La bimba: otherwise he wouldn’t know? (“quel dissennato fidarsi dell'intuito maschile...” − Lella Costa a proposito di come le donne sappiano farsi del male)

Sì, le donne spesso sanno viverla, la musica delle emozioni e dei sentimenti, le loro parole − e i loro gesti − l’interpretano, non la violano.

Forse per questa intesa occorrono gli estrogeni. Forse sono i due cromosomi X che fin da piccoli si parlano, comunicano, si capiscono, mentre il nostro, da solo con l’Y monco, si parla addosso e si rincoglionisce. Fatto sta che l’uomo schizzato lo è senz’altro, perché raramente coglie la musica come parte di sé: per lo più la ignora, o la studia e analizza come un insetto strano, o la coccola e la venera e vi si abbandona perdendo la ragione.

Ma, oddio, un po’ schizzate lo sono anche le donne.

Chiedi a una donna, anche la più degna, che cosa cerca, quanto calore, quanta forza quanta dolcezza quanta durezza quanta disponibilità quanta sicurezza quanta sorpresa quanto spirito quanta aggressività, in un uomo... E poi guarda a chi si attacca! Forse perché la musica cerca proprio qualcosa che non si può avere, che è mancato in passato perché non ci poteva essere, e lo cerca in persone proprio come quelle che non ce l’hanno saputo dare, che non ce l’hanno dato perché non POTEVANO darcelo... E lo cerca con ansia e con passione perché non lo trova e non lo può trovare... Perché in fondo neanche le donne sono così brave a leggere la musica. Sanno viverla, certo, tradurla in comportamento, spesso coerente e sicuro, ma ne capiscono poco anche loro, e hanno un bel cercare di spiegarcela, cosa volete che capiamo noi?

Una cosa comunque le donne, in genere, l’hanno chiara, che non serve lamentarsi, guardarsi indietro, cercare gli errori e le colpe. Che per vivere bisogna seguire la musica. Allegra o triste, travolgente o commovente. Senza risparmiarsi e calcolare troppo. Qualcosa che potrebbero forse insegnare a noi uomini a fare anche in politica: trasformare la percezione di ciò che manca, di ciò che non va, in sforzo per costruire, con gioia e impegno. Non rinnegare, analizzare, strumentalizzare le carenze, ma avvertirle e riconoscerle come motore potente.

Negli anni ’70 per la prima e l’ultima volta ho cullato l’illusione che si potesse unirsi e battersi PER qualcosa. L’affacciarsi di questa eventualità ai margini del sentire collettivo è, credo, ciò cui molti pensavano vagheggiando di egemonia della classe operaia, ma non abbiamo saputo darle modi, strumenti, e obiettivi.

E lottare PER è tornato ad essere patrimonio delle parti sane del mondo cattolico, di frange nostalgiche di una sinistra diversa, di gruppi giovanili, e di poche persone impegnate nel mondo, nella cultura, nel sociale.

E per lo più delle donne, che alla musica, alla vita non rinunciano.

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Neurologicamente, siamo esseri visivi. Gran parte del cervello è organizzata per elaborare informazioni come quelle visive. Un’enorme quantità di dati che arriva insieme in ogni istante, tutti contemporaneamente. Non un semplice (semplice?) profumo, un sapore, un suono; ma milioni di punti colorati.

I dati però non si muovono ordinatamente come in un computer, scritti tutti in fila in un file: al cervello i dati neppure arrivano, come tali, e quello che arriva si frammenta subito, si scompone e ricompone all’infinito. Non punti colorati ma linee, curve e loro combinazioni, e semplici figure geometriche, e schemi via via più complessi, riconosciuti ognuno da neuroni diversi, fino a neuroni capaci di eccitarsi quando agli occhi si presenti qualunque immagine nella quale si possa in qualche maniera riconoscere la presenza di un viso.

Ogni neurone attento ad un aspetto. Milioni di esploratori, ognuno alla ricerca di specifici indizi: pare, in fondo, più per capire che per vedere.

Ogni neurone uno sguardo. Milioni di neuroni, mille letture e interpretazioni diverse, contemporanee, lì disponibili da esaminare comparare integrare rielaborare, da confrontare con ciò che è già stato.

Così, la realtà nel cervello si smaterializza: non ci sono fotografie ma dettagli elementi relazioni. E relazioni che escono da ciò che è lì da vedere, e includono aspetti emotivi, operativi, affettivi. E richiami, analogie. E continue e simultanee reinterpretazioni in ambiti sempre più vasti.

Siamo esseri visivi nel senso che sappiamo analizzare in mille modi contemporaneamente un insieme simultaneo di informazioni. MOLTEPLICITÀ, ma ogni aspetto in sé e allo stesso tempo rispetto a tutto ciò con cui lo si può rapportare. E quindi regole e logiche interne, sì, ma viste anche da fuori e in relazione ad ogni altra logica possibile. E’ analisi e rilettura in ambito più vasto − è METanalisi. E’ logica e METAlogica.

Sempre oltre. META: dentro ma anche fuori e sopra.

E via via che si studia l’organizzazione del cervello ci si imbatte in sistemi sempre più elevati, alla ricerca continua di sguardi unificanti, di armonie superiori, anche solo momentanee. Una specie di ossessiva e affascinante ricerca di armonia. Ma forse non troppo strana, se ci si rende conto che c’è qualcosa di più, più o meno evidente, nel cervello, qualcosa cui la neurobiologia non ha ancora prestato attenzione sufficiente: circuiti capaci di scatenare il piacere più profondo − quale ne può generare un sorriso, un gesto d’amore − quando un’intuizione, uno sguardo nuovo e inatteso, un insieme di sensazioni crea l’armonia di una sintesi di molteplicità (la BELLEZZA).

Il piacere del BELLO... Anche questo, nei circuiti neuronali, e da studiare con più cura.

E così se è vero che le emozioni nascono nel cuore, nei visceri, nella carne, il cervello sa combinarli e essiccarli ed estrarne il profumo, sa distillarne un’armonia, una musica che continuamente l’accompagna e mostra l’essenza della vita. E sa tradurre questa stessa musica, la musica della BELLO, in una nuova e travolgente emozione. E allora forse diviene chiaro perché le emozioni, e i profumi, suggeriscono l’anima: perché poche parole fanno pensare all’anima − e poche le si addicono − come ARMONIA e MUSICA.

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“Mantengo il mio contegno, e rimango padrone di me
fino a quando un organetto, meccanico e stanco
attacca un vecchio canto, estenuato
dal profumo dei giacinti del giardino
riportando alla memoria
cose che altri hanno desiderato ”

                    T.S. Eliot, “Portrait of a Lady”.

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