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Fisiologia dell’anima - o, se preferisci, - neuroni & anima
Riccardo Fesce - tutti i diritti riservati (editori e agenti interessati, inviare una mail)
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VI

CHI SIAMO NOI? − La Memoria

Si può definire la memoria in molti modi, o meglio definirne molti tipi. Scomporla in tante funzioni semplici e complesse, alcune presenti fin nei vermi ed altre solo nell’uomo, e che possono essere considerate ognuna come un aspetto della memoria.

La risposta ad uno stimolo ripetuto si riduce: a essere generosi, è già memoria, no? Ma la risposta si può risvegliare associando altri stimoli; questo succede persino in stupidissimi molluschi marini, che sembrano così “ricordare” ciò che è successo. E chi non conosce gli esperimenti di Pavlov che faceva venir l’acquolina in bocca al suo cane suonando un campanello? Anche imparare ad andare in bicicletta (un orso lo può fare) o a suonare il sassofono (qui sembra ci voglia un soggetto più brillante) richiede che si “fissino” in qualche parte del cervello dei ricordi (schemi motori) e che li si possa richiamare. Per non parlare di funzioni più complesse ancora...

Comunemente, però, pensiamo alla memoria come una funzione un po’ più specifica: la capacità di fissare ricordi che persistano a lungo, più che come la loro momentanea registrazione. Il nostro interesse allora si concentra sul processo di consolidamento della memoria: termine che suggerisce che si tratti, sbozzato un ricordo nell’argilla, di farlo rapprendere e cuocerlo perché non si rovini. Proprio così comunemente si pensa ai ricordi: sensazioni, suoni, immagini, catturati e scolpiti in qualche anfratto del cervello − in qualche proteina? nel DNA? − e conservati per quando occorrerà rintracciarli. Il culto dei computer rafforza questa visione della memoria come “archivio”. Eppure, la memoria − come si svolge nel nostro cervello − è processo attivo che ben poco si avvicina all’ideale della accurata e affidabile conservazione di documenti: è piuttosto un mutevole gioco di appunti schizzi e caricature, che dice molto sul suo proprietario, forse più che su ciò che vi è stato archiviato.

Se poi ci si lascia trasportare, si finisce a supporre che il suo proprietario, in ultima analisi, sia proprio ciò che vi è stato archiviato... La memoria come personalità e identità, la mia storia come io l’ho vissuta. E del vero c’è senz’altro, in questo, perché ogni attività del sistema nervoso lascia un segno, labile o persistente, che non è solo traccia di ciò che è avvenuto: al tempo stesso è una alterazione, per quanto lieve o impercettibile, del modo in cui il sistema reagirà ad altri segnali in futuro.

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Non è un deposito, la memoria, no.

La memoria sei tu.

Non è neppure ciò di cui sei fatto, non è abbastanza, sei tu.

La memoria cresce e cambia, i ricordi non sono pacchi chiusi, si modificano con te.

La realtà, le sensazioni, le emozioni creano reticoli di attività e relazioni tra le centinaia di miliardi di neuroni di cui sei fatto. Sì, di neuroni sei fatto (fatto in senso letterale, non c’entrano psicofarmaci), di neuroni è fatta la tua mente. Certo tu non sei i tuoi neuroni. Ma ogni inimmaginabilmente complesso reticolo di attività e relazioni, ogni momento della attività del cervello, che in ogni istante appunto cambia, è un momento della tua vita, di te; e questo sei tu. Come la musica non è il pianoforte, ma è una vibrazione dell’aria. Ci parla ci commuove ci appare come un’energia e un’incorporea magia, ma la sua essenza non è altro che nell’aria e nella sua capacità di vibrare.

Ma che cosa ricordiamo ?

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La memoria, che non racconta il passato, ma i segni che ci ha lasciato nell’anima...

“Comunque sia, quando raccontiamo il passato, ogni nostro respiro è una menzogna".
Perché? quale forza emotiva, metafisica o soprannaturale ci spinge a farlo?

In realtà non necessariamente lo “facciamo”. Una macchina che sembra procedere in modo strano non necessariamente lo fa perché l’autista è ubriaco; talvolta è proprio la macchina − talvolta un difetto o un guasto − talvolta è proprio fatta per lavorare così.

Molti, parlando di memoria e ricordi, si stupiscono di imprecisioni e rielaborazioni, quasi rimpiangendo la precisione del computer nel registrare dati.

In realtà ci sono sì delle regioni dedicate, nel cervello, a fissare informazioni, in modo associativo: un oggetto come insieme di caratteristiche sensoriali, nomi per gli oggetti le persone e le relazioni, una parola come sequenza di caratteri, una filastrocca come sequenza di parole, o meglio ancora come sequenza dei movimenti implicati nel ripeterla, regioni specifiche della corteccia cerebrale o del cervelletto. E funzionano piuttosto bene.

Ma gran parte della memoria non ha nulla a che fare con questo lavoro di segreteria, da archivisti puntigliosi. È qualcosa di ben più complesso, per certi versi evanescente, per molti versi di gran lunga più affascinante. E proprio quelli che lamentano i disguidi, le imperfezioni nel funzionamento della memoria, quasi invidiassero l’inflessibile e insindacabile precisione delle memorie elettroniche, pare che non si rendano conto che loro stessi negherebbero la più lontana possibilità di un barlume di anima al computer; e non tanto perché il concilio di Trento si è limitato a darla alle donne, ma semplicemente perché il computer non sa inventarsi una realtà, viverla: si limita a registrarla.

E’ la strada che il ricordo percorre, tra chi lo registra e chi lo legge, a far la differenza.

Noi non ricordiamo con gli occhi, con le mani, con il cuore.

Prima di arrivare dove qualcosa si può registrare, nel cervello, c’è tanta strada, elaborazione, interpretazione.

Ricordiamo interpretazioni, e le reinterpretiamo ricordandole.

Difetto? A mio parere no, è lì che nasce l’anima.

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Il dato sensoriale (un suono, un’immagine, un profumo...) raggiunge la corteccia cerebrale e ad ogni passaggio viene rielaborato, smaterializzandosi in una collezione di relazioni e schemi. Il dato crudo viene digerito e scomposto in mille modi diversi da mille strutture cerebrali diverse (non più un’immagine ma linee, colori, masse, volumi, contrasti di luce e toni, figure geometriche e visi, sconosciuti o noti...), e ciò che viene registrato sono tanti schemi di attività di gruppi specifici di neuroni. Ogni schema di attività rappresenta un tratto, una caratteristica, un modo di vedere il dato sensoriale.

E gli schemi di attività coerente delle cellule nervose tendono a fissarsi quando si ripetono (o se si presentano in un momento di intensa attenzione o emozione): se un reticolo di neuroni è attivato in modo sincrono più volte, le connessioni tra loro si rafforzano.

Lo schema di attività neuronale che corrisponde ad un dato dell’esperienza si fissa e l’esperienza viene così registrata dentro di noi. Anzi, più ancora che dentro di noi. Diventa parte di noi. Di questo siamo fatti. E’ così che cresciamo, è così che cambiamo...

I reticoli di attività neuronale evocati dalla realtà, dalle sensazioni, dalle emozioni si fissano quando c’è emozione o ripetizione, e gli schemi di attività neuronale così fissati tendono a ripresentarsi quando il reticolo di neuroni coinvolti viene attivato anche solo in parte, quando viviamo una esperienza sensoriale cognitiva o emotiva almeno in parte coincidente. Così il cervello riconosce facilmente le caratteristiche che corrispondono a schemi già acquisiti, e la costruzione di un nuovo ricordo può utilizzare gli schemi già presenti, e a sua volta li completa ed arricchisce.

Abbiamo fatto grandi progressi nella comprensione dei processi della memoria, nell’ultimo trentennio; se non si guarda nella luce giusta, però, la rilevanza di quanto abbiamo compreso non è cosi evidente. Conosciamo ora meccanismi cellulari grazie ai quali la efficienza di una sinapsi (il punto di contatto e comunicazione tra due neuroni) cambia in funzione della attività precedente: la sinapsi si rafforza o si indebolisce, e l’effetto persiste per minuti, ore, giorni; può dare luogo a modificazioni permanenti della “rete” neuronale.

Un’alterata efficienza di sinapsi non sembra forse gran cosa: ricordi, linguaggio, pensiero sono ben altro! Ma questi processi di plasticità sinaptica sono progressivi e associativi: sinapsi che vengono attivate insieme si stabilizzano e rafforzano sempre più (oppure si indeboliscono). E così si possono consolidare schemi anche complessi di attività coordinata di neuroni, “fissando” sensazioni, stati mentali, ricordi.

Proprio questo avviene continuamente, in alcune regioni “di lavoro” o “di parcheggio” della memoria, dove le modificazioni non persistono a lungo: così possiamo ripetere un numero di telefono o ricordare un nome per alcuni minuti. E’ uno spazio limitato, questo, che va riutilizzato di continuo: se un ricordo non viene rinfrescato si sbiadisce e si perde. Se invece uno schema si ripete più e più volte potrà venire riprodotto e “fissato” in regioni cerebrali meno dinamiche, dove le alterazioni plastiche sono più persistenti, ed andrà a costituire un ricordo permanente. Come ogni studente sa bene, se rileggiamo domani ciò che abbiamo studiato oggi, e lo riesaminiamo ancora dopo qualche giorno o settimana, non lo dimenticheremo facilmente (è andato in corteccia!), mentre tra un mese non ricorderemo una virgola di ciò che studiamo di fretta prima dell’interrogazione.

Gli schemi di attività coerente delle cellule nervose tendono a fissarsi quando si ripetono. Se un reticolo di neuroni è attivato in modo sincrono più volte le connessioni tra loro si rafforzano, e lo schema di attività tende a ripresentarsi ogni volta che il reticolo di neuroni coinvolti viene attivato anche solo in parte, quando il cervello si trova a vivere uno stato simile di attivazione, ovvero quando viviamo una esperienza sensoriale cognitiva o emotiva almeno in parte coincidente.

Dunque ciò che si ripresenta, che persiste, che ritorna nelle nostre sensazioni, nei nostri pensieri, nelle nostre emozioni si fissa, si consolida. Lo si può richiamare attivando in parte lo stesso schema neuronale, quando “qualcosa ce lo ricorda”. E lo riconosci come patrimonio personale, come te stesso, e per questo quando lo reincontri riconosci sia l’esperienza sia la tua reazione come parti di te stesso.

Ma si fissa anche ciò che non viene riconosciuto, ciò che è nuovo. A patto che tu sia attento. E si integra con ciò che sei, e diviene te che cambi.

Basta osservare gli atteggiamenti corporei, le espressioni: ogni espressione e atteggiamento che assumiamo, ogni gesto che facciamo, riproduce uno schema di attività dei neuroni delle varie parti del cervello che predispongono e eseguono i movimenti. E c’è poco di più tuo delle tue espressioni, dei tuoi gesti, e tendi a riprodurli. Ma se per studiarli, o per inconscia imitazione − succede molto ai bambini ma anche a noi con le persone che amiamo − ne riproduci più volte di nuovi, anche questi diventano te...

Si fissa il nuovo se sei attento, e lo sei se sei all’erta, teso. Ancor più si fissa se sei sconvolto o travolto dall’emozione. Ne discuteremo altrove, ma l’emozione, e in particolare la paura, nasce dal riconoscimento inconsapevole di situazioni di grande rilevanza per la sopravvivenza o il benessere dell’organismo: alcune regioni profonde del sistema nervoso si attivano e non solo allertano tutto il cervello, ma fissano ogni percezione presente, memorizzandola come possibile segnale indiretto di una situazione emotivamente rilevante, come dettaglio non irrilevante che in futuro potrebbe avvertire per tempo di un pericolo, o di una possibile gratificazione emotiva.

Si fissa il nuovo, o meglio gli schemi che lo rappresentano. Perché ogni schema che si genera, e che viene fissato, è sì una risposta alla realtà, ma non è la realtà: è il tuo modo di riceverla, la tua risposta, un quadro complesso ricco di aspetti cognitivi ma anche emotivi affettivi estetici volitivi viscerali. Tuoi.

E’ la tua risposta, sei tu di fronte alla realtà.

Ma al tempo stesso tu cambi. Cambi perché ora anche quell’attimo della tua vita è diventato te. L’attività coordinata di neuroni, che lo rappresenta, d’ora in poi tenderà a ripresentarsi ogni volta che ne attiverai una parte, e ti riproporrà questo momento − e lo farà tanto più quanto più intensamente lo hai vissuto.

Ogni esperienza simile tenderà a riproporti questo momento. Se sarai attento ti accorgerai che non lo stai rivivendo identico, noterai le differenze, e al tempo stesso fisserai schemi simili che confonderanno il ricordo arricchendolo di nuove sfumature che prima non c’erano. Se non sarai attento ti sembrerà di rivivere semplicemente qualcosa che sai, di essere semplicemente come ti è già capitato di essere; ma intanto, subdolamente, il gioco dei neuroni − di potenziare le relazioni con chi è in sintonia − può a poco a poco slabbrare l’incisione del tuo ricordo, rendendolo sempre più simile a ciò che stai vivendo ora, a come lo stai vivendo ora.

Ogni nuovo quadro di attività che si genera nel cervello è un modo di assimilare (rendere il più possibile simile a ciò che già possediamo) il mondo e l’esperienza. Ma nell’assimilare anche noi cambiamo. E tanto più quanto siamo attenti, colpiti, agitati, emozionati, appassionati.

Anche se dici la cosa più originale e acuta e estrosa che si possa immaginare c’è sempre qualcuno che reagisce onestamente e sinceramente come se gli dicessi qualcosa che sa già, ha già visto, ha già pensato. Certo, già visto tutto, basta non fare attenzione, non cogliere le differenze, il nuovo, basta non lasciarsi commuovere... E ciononostante le incisioni si slabbrano (un po’ meno, forse, se ti abbarbichi all’idea di non aver nulla da imparare, e riesci a vedere solo quello che già sai). E un minimo si cambia tutti − anche quelli lì: in ogni momento non sei più lo stesso, e non lo sono più neanche loro, quelli che hanno già visto, sanno già tutto. Non sei più lo stesso, materialmente: chi si ama molto così com’è potrà non gradire, ma nuove connessioni si sono stabilite e rafforzate o indebolite tra i tuoi innumerevoli neuroni, e non potrai più nemmeno riprodurre (ricordare) come eri prima, esattamente. E così in ogni istante cerchi di assimilare ma al tempo stesso cambi tu, cambi perché in ogni momento ogni reticolo, ogni schema di attività che puoi riconoscere come tuo, come te, che l’hai già vissuto, è di fatto ora più ricco, diverso.

Nuovo e diverso come una parola usata tante volte, che un giorno trovi in una poesia, carica di un colore, di un’emozione, di un’atmosfera che non aveva mai avuto; e quella parola non sarà più la stessa nel tuo vocabolario, e tutto il tuo linguaggio non sarà più lo stesso, perché ha uno strumento in più, rinnovato e riaggiustato, capace di rendere sfumature e prospettive nuove.

Sì, proprio così, la nostra memoria, e in fondo ognuno di noi, è come un linguaggio, come il linguaggio di un bimbo, che può diventare poeta.

Ogni parola che il linguaggio acquista vi entra con un significato, un valore semantico, un valore estetico, un valore emotivo, un valore affettivo più o meno rilevanti. Ogni volta che si presenterà il suo suono, la sua sequenza di lettere scritte, i concetti e le emozioni ad essa legate si ripresenteranno. Ma ogni volta potranno ripresentarsi associati a oggetti, concetti, emozioni, colorazioni, toni, ritmi diversi, spesso inattesi talora sorprendenti. E la parola cambia, si arricchisce, cambia la sua luce il suo colore, la sua tonalità, la sua gradevolezza, la sua evocatività, la sua musica, il suo impegno.

E cambia il linguaggio, e il bimbo diviene poeta, o avvocato. O magari geometra, o stilista...

Ma il linguaggio così inteso è personale, individuale. Per ognuno di noi ogni parola ha suono emozione e colore diverso. C’è da stupirsi se spesso non ci si capisce?

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Talvolta è più facile ricordare stupidaggini, il testo di canzoni da bambini, i nomi dei personaggi dei serial, o di quelli assurdi dei videogiochi, e si può fare una fatica terribile a imparare a memoria cose che consideri importanti mentre filastrocche irrilevanti e indesiderate continuano a risuonarti nella mente. Un modo di ritrarsi e riposare, forse. Riproporre parti di te che con la loro automaticità ti danno sicurezza, ti distraggono e riparano un po’ dagli scossoni delle novità, frenare un po’, riproponendoti cose familiari, stupide quanto vuoi, ma rassicuranti, e sempre più familiari.

Perché in fondo la memoria è anche questo, sentirsi a casa tra ciò che si riconosce, e a guidarla è, come per la vita in generale, questo eterno conflitto tra l’affermarsi e riconoscersi − per proteggersi dal nuovo e dal cambiamento, − e la curiosità, la necessità di interagire per cambiare, per vivere.

Di ogni nostra esperienza il cervello conserva una rappresentazione sfaccettata, basata su numerosi schemi di attività coordinata di cellule nervose. E per ogni nuovo dato sensoriale riconoscerà facilmente le caratteristiche che corrispondono a schemi già acquisiti. La costruzione del nuovo ricordo può così utilizzare gli schemi già presenti, e a sua volta li completa ed arricchisce. Non è una pellicola fotografica che viene impressionata, la memoria, è un processo attivo di assimilazione dei dati in arrivo con l’insieme delle informazioni già acquisite: non è dunque la riproduzione fedele della realtà a guidarla, ma la percezione soggettiva, in buona parte determinata dalle informazioni memorizzate in precedenza. Intesa in questi termini − come processo dinamico sia nel costruire, sia nel conservare, aggiornare e richiamare il ricordo − la memoria, lungi dall’apparire archivio scartoffioso, sembra piuttosto ricordare il linguaggio, il linguaggio che cresce: un insieme di oggetti-parole che vivono nelle relazioni che li legano, nel plasmare nuovi oggetti e relazioni, nell’arricchirsi di nuovi significati.

E come le parole sembrano talora staccarsi dagli oggetti che rappresentano, e come animate di vita propria assumono nuovi significati e nuove colorazioni, così i nostri ricordi, costruiti e tenuti vivi, come parole ogni volta usate in un contesto diverso, crescono e mutano con noi; quando richiamiamo un vecchio ricordo, ricostruiamo lo schema di attività neuronale che gli corrispondeva, ma in un cervello che nel frattempo è mutato, e nel quale alla attività di ogni gruppo di neuroni possono essere associati nuovi significati. Ed il ricordo può comparire diverso, è un ricordo che l’io attuale ricostruisce, non il ricordo “fissato” tempo fa. E questo benché alcuni aspetti del ricordo, specialmente quelli emotivi, possano essere percepiti come − ed essere davvero − perfettamente identici.

Strumento di registrazione impreciso, dunque, la nostra memoria, viziato da pregiudizi e rimaneggiato. Macchina imperfetta? Ma se così non fosse come potrebbe permetterci di dare un "senso" ad un’immagine, ad un suono, alla vita? Strumento che interpreta già nel registrare. Impreciso, distorto? Motivo in più per scambiare impressioni ed opinioni con altri osservatori altrettanto imprecisi della realtà!

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Come si impara a parlare, si impara a ricordare.

Chi possiede pochi vocaboli fatica ad acquisire una nuova parola, a coglierne la ricchezza e complessità, ad imparare ad usarla in tutta la sua potenza espressiva. Non è strano che il bambino piccolo, che pure ha grandi potenzialità di plasticità sinaptica, pochi ricordi già fissati e “tanto spazio” per accumularne di nuovi, abbia meno facilità a fissare ricordi, o meglio che i suoi ricordi siano meno precisi, ricchi e dettagliati: proprio perché non ve ne sono già mille con cui costruirne uno nuovo in tutte le sue sfaccettature e relazioni.

Il poeta che conosce a fondo la parola e la sua origine, che ne sviscera i risvolti semantici e le proprietà metriche, musicali ed evocative, che possiede tanti modi per ridire lo stesso pensiero, difficilmente sarà messo a tacere rubandogli qualche vocabolo. Così una memoria attiva, volta a cogliere le relazioni nella realtà più che a fissarne immagini statiche, basata sulla continua rielaborazione delle proprie conoscenze, ponendole in relazione con informazioni sempre nuove, sarà ben più resistente al logorio del tempo e dell’età: le nozioni si dimenticano, ma la ragnatela di riferimenti concettuali che le lega − la cultura − resta.

Abbiamo imparato curarci del corpo: igiene, esercizio, attenzione a che cosa e quanto mangiamo. Altrettanta − e forse maggiore − cura richiederebbe la nostra mente. L’emigrato, che torna dopo tanti anni in cui non ha parlato italiano, sembra aver non solo dimenticato tante parole, ma quasi disimparato ad usare la nostra lingua per esprimersi correttamente... Come il linguaggio si arricchisce parlando e si avvizzisce non usandolo, anche la memoria, strumento centrale per tutte le funzioni cerebrali superiori, si arrugginisce con l’età se mancano gli stimoli per tenerla in esercizio: il deterioramento delle capacità mentali in molti anziani è in realtà causato non solo da malattie, ma da abbandono, emarginazione sociale, perdita di relazioni affettive, carenza di esercizio fisico e soprattutto mentale.

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Da questo quadro variegato emerge un concetto di memoria sfaccettato e per certi versi contraddittorio e sfuggente: una cosa e mille diverse insieme. La visione della memoria, come processo di fissazione e riproduzione di schemi di attività neuronale, porta infatti a estendere il concetto di memoria e intuirne la molteplicità. La plasticità neuronale è presente e attiva nella maggior parte delle strutture del sistema nervoso, e soprattutto nelle regioni corticali, pur essendo più o meno marcata nelle varie aree. E ogni regione, caratterizzata da un suo modo di elaborare e “interpretare” specifiche informazioni, presenterà una sua forma di memoria. In effetti le scienze cognitive oggi non usano più il termine memoria da solo, se non come vaga categoria di attività cognitive. Lo studio della memoria è oggi basato su precise classificazioni. Si parla di memoria “dichiarativa”, esplicita, comunicabile a parole, consapevole, da un lato, e di memoria “non dichiarativa”, implicita, non verbale, automatica, inconsapevole, dall’altro: memoria procedurale (destrezza, abilità, abitudini, schemi motori), “priming” e apprendimento associativo di base (condizionamento). E si distinguono sottosistemi della memoria: memoria episodica (ricordo che), semantica (so che) e procedurale (so come).

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I PROCESSI COINVOLTI NEI VARI ASPETTI DELLA MEMORIA:

Priming

Aree di elaborazione sensoriale sanno principalmente fissare schemi che corrispondono a esperienze sensoriali, pronti ad attivarsi per riconoscere aspetti dell’esperienza già incontrati in passato. E’ memoria se riconosciamo qualcosa di già visto? Gli inglesi hanno un bel termine per questo fenomeno, “priming”, termine che si oppone essenzialmente alla “naiveté”, indicando efficacemente qualcosa a mezza via tra preparazione, predisposizione e perdita della verginità. E non si tratta di quella chiara o incerta e sfumata sensazione di familiarità (sensazione consapevole), non è il dejà-vu di un profumo antico, no, è qualcosa di molto più banale, una accelerazione della capacità di reazione a uno stimolo già presentato una volta rispetto a uno mai visto, proprio un riassestamento della circuiteria neuronale, a cui si può certo aggiungere una percezione più o meno chiara che qualcosa è stata riconosciuta, ma sarà percezione a carico di altre aree del cervello, aree incaricate di metanalisi e valutazione semantica, interpretazione, risveglio e indirizzo dell’attenzione... Siamo alle basi cellulari di una questione già discussa: nell’esperienza la risposta del cervello è diversa a ciò che è noto rispetto a ciò che è nuovo. Il priming è processo fondamentale della memoria e rilevante almeno quanto la sorpresa: entrambi richiamano l’attenzione, l’uno suggerendo familiarità, risposte già verificate, abituali, e conferma e sicurezza, l’altra sollecitando esitazione, e dubbio e cambiamento, e la lieve vertigine della curiosità e della scoperta. Ma questo non è già più memoria, è lettura, metalettura, da parte di sistemi di elaborazione “superiore” e interpretazione, di ciò che succede in regioni di elaborazione sensoriale a seguito di alterazioni che alla memoria sono legate.

Se questo processo di riconoscimento è strettamente legato alle attività sensoriali, un processo per nulla diverso avviene anche in aree di elaborazione complessa e di correlazione tra modalità sensoriali: in quelle aree si fissano schemi di concordanza tra varie modalità sensoriali che permettono di riconoscere oggetti, relazioni, caratteristiche, e di apprendere letture e interpretazioni concettuali. E non c’è motivo di pensare che da fenomeni di priming siano esenti aree e circuiti corticali implicati in elaborazioni ancor più complesse, che permetteranno di fissare aspetti logici via via più astratti, fino alla coagulazione di sistemi simbolici, con la conseguente spaventosa evoluzione nelle possibilità di apprendimento e elaborazione razionale.

Condizionamento aversivo e operante

Molti circuiti sottocorticali operano per avviare reazioni adeguate a situazioni di pericolo; molti segnali (odori, immagini, eventi), che per una specie sono indifferenti, sono indicatori di pericolo per un’altra, e sono in grado di determinare reazioni istintive di fuga e difesa.

Ma oltre alle risposte istintive, per l’animale come per noi è necessario imparare a riconoscere e temere ciò che costituisce pericolo, anche laddove l’istinto non ci aiuta. E questo è aspetto non marginale della memoria, meno eccitante di altri sotto il profilo filosofico, ma non meno rilevante per la sopravvivenza. La capacità di apprendimento dell’amigdala (un nucleo profondo della regione temporale) sostiene questi processi: semplici meccanismi associativi rendono conto di come l’amigdala fissi le relazioni tra elementi − semplici o complessi − dell’esperienza e situazioni di pericolo, imparando a generare risposte di allarme evitamento e difesa quando uno stimolo irrilevante si associa più volte a una situazione fastidiosa pericolosa o dolorosa (il cosiddetto condizionamento aversivo). I circuiti che sostengono, grazie alla loro plasticità, questa forma di apprendimento, sono presumibilmente, almeno in parte, anche esterni all’amigdala. Meccanismi neuronali simili sostengono peraltro forme analoghe di apprendimento, come il condizionamento operante: l’associazione ripetuta tra un comportamento (es. premere una leva) e un premio (es. ricevere cibo) può guidare l’acquisizione di un nuovo comportamento.

Anche in questo caso le alterazioni delle risposte sono aspetti di apprendimento e memoria in senso stretto, ma sottolineano la presenza e attività di altri processi di grande rilevanza: il semplice riconoscimento di segnali d’allarme (istintivi o appresi), o l’associazione tra un gesto e un premio, non giustificano in sé modificazioni del comportamento. Occorre che vi siano strutture e circuiti, nel sistema nervoso, capaci al tempo stesso di apprendere e di intervenire come forze motivazionali, modificando le risposte istintive o generando comportamenti autonomi, e questo anche senza che ve ne sia consapevolezza.

Condizionamento classico

Il luogo del sistema nervoso dove meccanismi associativi la fanno da padrone è il cervelletto, una struttura che nell’uomo contiene la maggior parte di tutti i neuroni del sistema nervoso. Esso coordina gruppi interi di muscoli e attività in varie regioni dell’encefalo; in ogni istante confronta i comandi in uscita dal cervello e dal tronco encefalico con i loro risultati e interviene a correggere e modulare, un servocontrollo potentissimo e rapido che permette la massima accuratezza delle risposte motorie e comportamentali e il loro aggiustamento rapido e dinamico. Danni al cervelletto compromettono rapidità, calibrazione, accuratezza, scioltezza e automatismo di movimenti: se il cervelletto è leso un movimento mirato (ad esempio portare un dito al naso, ad occhi chiusi) diviene faticoso incerto ed oscillante, quando si scosta dal percorso ottimale viene corretto troppo, va oltre la meta e deve tornare indietro.

Il cervelletto è un sistema di enorme potenza, organizzato in modo ripetitivo e sistematico. Riceve copia di tutte le informazioni sensoriali − dai sensi specifici, dal vestibolo, dai muscoli, dalle articolazioni − e, attraverso una via separata, copia di tutti i segnali sia in arrivo che in discesa, verso muscoli e organi viscerali. Su una di queste vie il cervelletto ha miliardi di connessioni in eccesso, che si combinano a modulare attivare e inibire risposte complesse del sistema nervoso; molte di queste sinapsi vengono continuamente indebolite, e spente a lungo termine, ogni volta che sugli stessi neuroni è attiva anche l’altra via. La circuiteria del cervelletto cambia dunque in funzione della relazione tra informazioni sensoriali e ordini motori.

Quindi, se uno stimolo o una situazione particolare si presentano nel momento in cui è in corso una risposta dell’organismo, il cervelletto impara a generare questa stessa risposta ogni volta che si ripresenti quello stesso stimolo, quella situazione particolare. E’ la circuiteria di base che permette l’istaurarsi del condizionamento classico: un lieve soffio sugli occhi ogni volta che suona il campanello, e batterò le palpebre ogni volta che suonerà in futuro.

L’aspetto che potrebbe sfuggire, ma è di centrale importanza per capire la rilevanza di un sistema di apprendimento di questo genere, è che al cervello giungono abbondanti informazioni sulla posizione e il movimento dei muscoli e delle articolazioni; quindi anche lo svolgimento di un movimento specifico costituisce un quadro sensoriale, una “situazione”, e se a questo movimento si accompagna o segue subito un altro movimento, due volte, tre volte, cento volte, la sequenza diventerà automatica. E sarà controllata finemente e rapidamente dal cervelletto, senza richiedere attenzione, svolgendosi anzi più veloce e precisa, automatica appunto. E dopo tre tasti premuti al pianoforte il quarto verrà da solo, meglio non pensarci se non si vuol sbagliare, o comunque interferire con la fluidità della sequenza di movimenti.

Sì, viene da solo, come dopo “fiat” viene “lux” per alcuni, “punto” per altri. Questa circuiteria di servocontrollo e riproduzione di sequenze è troppo utile ed efficiente, infatti, per ogni aspetto automatico dell’elaborazione, perché non se ne giovino anche le aree di elaborazione cognitiva: se non occorre calcolare quanto fa tre per quattro è perché il cervelletto suggerisce la risposta automatica dodici. E ripete preghiere e poesie imparate a memoria senza impedirci di pensare ad altro, e controlla ininterrottamente desinenze, concordanze grammaticali e sintattiche, consecutio temporum e ordine delle parole, lasciandoci il cervello a disposizione per pensare CHE COSA vogliamo dire e COME lo vogliamo dire.

Grande utilità, questa macchinetta che lavora là dietro, in fondo alla testa, per semplificare la vita. Almeno laddove è bene semplificare in nome dell’efficienza, come nei quiz televisivi, dove occorre avere la risposta, possibilmente giusta, ma soprattutto rapida, perché stare a pensare equivale a sbagliare...

Memoria implicita ed esplicita

La struttura più studiata nel sistema nervoso, dal punto di vista dell’apprendimento e della memoria, è l’ippocampo. E’ una importante struttura nella profondità del lobo temporale, con alcune regioni della vicina corteccia specificamente associate ad esso. Negli animali inferiori di fatto costituisce buona parte di tutto il cervello.

Molti circuiti nel cervello sono estremamente plastici durante lo sviluppo, e questo rende conto sia della evoluzione di capacità sensoriali e cognitive nell’embrione e nell’età infantile, sia della maggior capacità di apprendimento del bambino. Raggiunta l’età adulta, i fenomeni di plasticità neuronale divengono più limitati in molte aree, ma restano attivissimi nell’ippocampo e altre strutture specifiche (come amigdala, cervelletto e varie regioni della corteccia).

Il ruolo dell’ippocampo sta proprio in questa sua straordinaria plasticità: connessioni e circuiti si rimodellano ad ogni istante in modo da fissare il presentarsi di associazioni coincidenze e sequenze, e tanto più a lungo e profondamente quanto più queste relazioni si ripetono. La plasticità dell’ippocampo è tipicamente associativa: input che arrivano insieme sullo stesso neurone, o in sequenza rapida e riproducibile, si rafforzano, per minuti, ore, giorni, consolidando la scrittura, nella circuiteria dell’ippocampo, di reti di relazioni capaci di costruire un contesto per ogni informazione sensoriale e cognitiva. La traccia mnesica, il “ricordo”, nell’ippocampo è complessa, intricata, ricca di relazioni, è descrizione “esplicita” dell’esperienza, facilmente mappabile su un sistema simbolico e linguistico e quindi verbalizzabile − almeno nel cervello di un animale come l’uomo, capace appunto di elaborazione simbolica e linguaggio. Questo si contrappone agli altri aspetti di memoria associativa fin qui discussi, volti soprattutto a creare connessioni tra stimoli e risposte, o sequenze logiche o comportamentali fisse, che operano senza bisogno − e spesso senza possibilità − di lettura esplicita e verbalizzazione.

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LE MODALITA’ E I SISTEMI DELLA MEMORIA

Come accennato sopra, si distinguono sottosistemi della memoria: memoria episodica (ricordo che), semantica (so che) e procedurale (so come).

La memoria episodica è dichiarativa e si riferisce ad esperienze soggettive. Il richiamo del ricordo non riproduce l’episodio, ma lo ricostruisce in base a come il soggetto lo ha vissuto, e il ricordo si rimaneggia nel tempo con l’evolvere del quadro di riferimento del soggetto. Questione di non lieve rilevanza nell’attribuire verità a un ricordo − mi sovviene il “testimone inconsapevole” di Carofiglio.

Una parte del lobo temporale è particolarmente implicata in questo tipo di memoria: guarda caso una stimolazione elettrica di quella zona provoca la sensazione di dejà-vu, quella impressione sfuggente di aver già visto e vissuto questo momento...

La memoria semantica è pure dichiarativa e si riferisce al significato; è intrinsecamente legata ad aspetti di associazione e generalizzazione, al linguaggio, in generale alla “interpretazione” dell’esperienza. E’ una funzione complessa che coinvolge aree diverse del cervello: strutture della corteccia prefrontale (le regioni che vedremo implicate nel focalizzare l’attenzione) in fase di ricerca del ricordo, l’ippocampo in fase di memorizzazione, e specialmente nel contestualizzare, e vaste aree della corteccia per il consolidamento della memoria, in funzione del tipo di conoscenza: relazioni spaziali, gerarchie, ordine, rapporti matematici principalmente nel lobo parietale; classificazione di oggetti, strumenti, visi e nomi principalmente nel lobo temporale; strategie propositi e progetti principalmente nel lobo frontale.

La memoria procedurale è in buona parte implicita, principalmente a carico di gangli della base e cervelletto, ma coinvolge il lobo frontale, e le aree premotorie in particolare, per i suoi aspetti espliciti e verbalizzabili.

Sono chiaramente descritti e caratterizzati anche altri due sistemi implicati in memoria e apprendimento.

Il primo è un sistema di rappresentazione percettiva, semi-automatico, principalmente legato al riconoscimento, con

  • un sottosistema visuale per parole/forme (corteccia visiva): questo sistema riconosce con grande efficienza, per esempio, e stacca la parola dal contesto scritto, proponendone rapidamente possibili luttere, bsatae sui cnotroni, e slula pmira e utlmia lrettea, mloto pimra che su un emsae atnetto e dtageliatto. O no?
  • un sottosistema uditivo per parole/forme (corteccia uditiva), che mentre si ascolta propone continue ipotesi di suddivisione del flusso di suoni in fonemi e parole, e permette di scegliere la sequenza più sensata per costruire una frase anche da frammenti interrotti; e talvolta si sente quel... k ... n’altr...n nà dett, ma lo si sente davvero, al punto di poter sostenere una discussione anche accesa: “hai detto questo!”, “no, forse tu hai capito quello”, “no, ho sentito benissimo che l’hai detto”...
  • un sottosistema strutturale per il riconoscimento presemantico della struttura di parole, oggetti e quant’altro può essere caratterizzato appunto da una struttura (qui è importante la giunzione temporo-occipitale); questo sottosistema ha ovviamente un ruolo centrale in entrambi i processi di riconoscimento di cui sopra.

Il secondo importante sistema è la “memoria di lavoro”, ovvero una serie di strutture cerebrali incaricate di ritenere per pochi secondi informazioni sensoriali e cognitive per permetterne l’elaborazione cognitiva. Si tratta di uno “spazio di lavoro” centrale esecutivo con due servo-sistemi: un’ansa fonologica per la prova ed il riciclo di piccole quantità di informazione verbale, non implicata nella memorizzazione a lungo termine (permette di trattenere i fonemi riconosciuti nel discorso sentito fino a completare l’interpretazione della parola e della frase, di riascoltarla e di ripetere sequenze senza senso − come un numero di telefono − senza ricordarlo più dopo pochi secondi); e un taccuino visuo-spaziale per la ritenzione a breve termine di informazione visiva e spaziale, che implica varie aree corticali e permette di riconoscere e analizzare cambiamenti, movimenti, evoluzioni e processi, grazie al continuo raffronto delle informazioni correnti e del recente passato.

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Insomma, con tutta la sua sofisticata complessità, la memoria risulta essere un insieme di funzioni raffinate, in parte legate, in parte indipendenti, in parte ancora subalterne ad altri sistemi neuronali di elaborazione. Un insieme di funzioni che − una per una − riconoscono una precisa base neuronale e modalità operative studiabili in dettaglio con approcci sperimentali, che sono oggi ragionevolmente chiare nelle loro caratteristiche fondamentali. Ma chi è stufo, ora, ha ragione. Fin qui abbiamo discusso meccanismi di fissazione di informazioni e procedure, meccanismi di apprendimento, che è difficile affermare non abbiano a che fare con la memoria; però la memoria, quello che intendiamo comunemente per memoria, quella che ci affascina e riconosciamo come parte di noi, come noi stessi, è un’altra cosa.

Vero, per carità. Vero anche che tutti i processi visti fin qui operano, alcuni identici alcuni meno sofisticati, anche negli animali. D’altra parte fin qui abbiamo discusso di strutture sottocorticali − amigdala, ippocampo, cervelletto − o di aree sensoriali della corteccia. Ma se nell’uomo è il resto della corteccia che fa massa e differenza, le aree associative multimodali che leggono confrontano combinano e interpretano le informazioni che ogni sistema del cervello elabora, se è il resto che sostiene i processi di astrazione e manipolazione simbolica, allora è ovvio che nell’uomo esiste un altro tipo, un altro livello, un altro modo di memoria: la possibilità di fissare, apprendere e ricordare rappresentazioni, analisi e interpretazioni, descrizioni e intuizioni, e di rileggerle come materia complessa e viva, di scrivere una storia esplicita e consapevole della realtà e della vita, la propria storia.

Ma dunque una volta di più ci troviamo a sconfinare, incontriamo il meta, una dimensione diversa che pone domande nuove richiede occhi nuovi, e porta altrove. Ancora una volta si incontra questa evanescente dimensione, consapevolezza, coscienza, un tratto che occupa buona parte dell’anima, la cui base neurale ancora sfugge, che rimanda ancora a metafisiche, miti, spiritualità e fedi.

Non si può fermarsi qui senza gettare uno sguardo a questa dimensione della memoria, quella della memoria come storia, la nostra storia. Mondo intero ricco di fascino e mistero.

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Nel loro complesso, tutte queste funzioni permettono di “scrivere” nel cervello (nelle connessioni tra cellule nervose) eventi dati e circostanze, informazioni e conoscenze, che costituiscono la nostra storia. Una storia, però, non raccontata dall’inizio alla fine ma piuttosto rimescolata come uno scatolone di vecchie fotografie rovesciato e rimesso in ordine da un bambino curioso: si troveranno vicine fotografie che si assomigliano, o hanno colori o forme simili, o contengono un dettaglio comune, e vengono magari da punti lontanissimi nel tempo e nello spazio. Eppure così è scritta la nostra storia, chiudendo una pagina ogni sera, un giorno dopo l’altro, ma riprendendo vecchie note per aggiungere e cancellare, ridisegnando, raccogliendo un giorno le note scritte al mare, un altro le lettere alla mamma, un altro ancora gli scontrini della libreria. Che razza di storia! se c’è una cosa che manca, e che della storia invece dovrebbe essere l’asse, è il tempo...

Sì, regioni che analizzano sequenze temporali potranno ordinare schemi di esperienze per ricordare e richiamare eventi ed azioni viste o eseguite. Aree e sistemi implicati nel controllo di procedure motorie potranno dare il loro contributo a tali ricostruzioni. Ma, in fondo, ogni ricordo è un quadro di attività neuronale richiamato e riproposto nel cervello, astratto e isolato dal tempo: la memoria, come capacità di richiamo di esperienze sensoriali passate, è frammentaria e senza tempo. Un ricordo può riguardare una sequenza, un processo, una successione di gesti e parole, ma a sé, come un tutt’uno, senza continuità temporale con altri ricordi. Basta pensare quanto è difficile ricostruire se qualcosa nella nostra vita sia successo prima o dopo altro: certo, possiamo associare una data, una situazione lavorativa, sociale, familiare, che permette facilmente di ricostruire il periodo, magari la data esatta, ma certo quell’evento nella nostra memoria non è vicino e connesso ad un evento del giorno prima, non c’è tasto rewind o fast-forward, non c’è successione ordinata, non c’è scansione. C’è un tratteggio di luoghi persone eventi emozioni idee e progetti che disegna lo sfondo di un’epoca della nostra vita e permette di collocare in un tempo relativo e assoluto ogni nostro ricordo. Ma non c’è sequenza.

Ci sono tempi − quelli di ogni gesto azione evento e sequenza che abbiamo fissato − ma non c’è il tempo.

Per questo ciò che più pienamente e precisamente ci assomiglia − così come siamo ora − è proprio la nostra memoria: non ciò che siamo stati, ma ciò che, di quanto siamo stati, ci resta dentro. E tutto qui, ora, non allineato fino a perdersi lontano, tutto qui, più o meno profondo e più o meno nascosto, mascherato o ben in vista, tutto presente nel guidare i nostri pensieri le nostre scelte le nostre fantasie i nostri desideri i nostri sogni. Ogni nostro pensiero risente di ciò che è passato per il corpo per la mente per l’anima in ogni momento della nostra vita. Riflette la nostra storia ma non la racconta, non c’è il tempo. Come la cultura non è ciò che sappiamo, ma il segno che quanto abbiamo imparato ci ha lasciato nell’anima, così noi siamo la nostra memoria. Non la nostra storia, ma come l’abbiamo vissuta e come la vediamo oggi: ciò che la nostra storia ci ha lasciato scritto nell’anima.

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“Addomesticami,” disse la volpe...
“Cosa vuol dire, addomesticare?”
E’ una cosa da molto dimenticata, vuol dire.. creare dei legami”.
“Creare dei legami?...”

“Certo,” disse la volpe “se tu mi addomestichi la mia vita sarà come illuminata... Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti. E poi.. vedi laggiù i campi di grano? io non mangio il pane, il grano per me non significa nulla. I campi di grano non mi ricordano niente, questo è triste. Ma tu hai i capelli color dell’oro... Allora sarà meraviglioso, quando mi avrai addomesticata: il grano, che è dorato, mi farà pensare a te! per favore addomesticami...”

... E il piccolo principe addomesticò la volpe... e quando l’ora della partenza fu vicina:

“Ah,” disse la volpe, “piangerò...”
“E’ colpa tua,” disse il piccolo principe; “io non ti volevo far male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi.”

“E’ vero,” disse la volpe.

“Ma ora piangerai.”

“E’ certo,” disse la volpe.

“E allora, che cosa ci guadagni?”

“Ci guadagno,” disse la volpe, “il colore del grano...”

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Legami. Connessioni. Questo è la memoria.

Non sono gli elementi che fanno lo spazio, ma le relazioni. E le relazioni emotive − e la memoria − ti tengono nello spazio della tua storia. Immagina di viaggiare in una regione sconosciuta, la nebbia magari, nessuna indicazione, niente edifici alberi rocce macchine che ti possano ricordare qualche altro posto... La sensazione più forte sarebbe di vuoto, irrealtà. Proprio per la mancanza di connessioni e legami con la realtà attorno. Per certi versi questa esperienza riprodurrebbe l’essenza e l’angoscia della schizofrenia, quella grave forma di psicosi caratterizzata dalla frattura tra le sfere emotiva e cognitiva: la difficoltà di stabilire connessioni appropriate con la realtà circostante lascia il paziente disorientato nello spazio e nel tempo, e compromette gravemente la sua capacità di produrre un pensiero coerente, di ragionare in maniera appropriata alla situazione.

Ancora più terribile è il pensiero che ci possano rubare la memoria... Isolati dalla realtà, e ancor peggio dalla NOSTRA realtà, da tutto ciò che amiamo, dalle persone care, da tutto quanto è stato importante nella nostra vita.

Ma la nostra storia è la nostra memoria. Della nostra vita resta in noi non CIO’ che ci succede ma COME lo viviamo. È forse l’aspetto cruciale della nostra identità, che sfugge al dilemma inaccettabile “sono semplicemente ciò che è scritto nel mio DNA” o “sono semplicemente la somma di ciò che mi è successo”: sono la somma di COME HO VISSUTO ciò che mi è successo, e l’ho vissuto per come già ero io. Ecco la mia storia...

Sì, in ogni istante stiamo scrivendo la memoria del futuro. Come singoli e come società. Ma ognuno la scrive alla sua maniera. Ognuno vive la realtà a suo modo, attento all’uno o all’altro aspetto, dettagli o emozioni, legami ricordi e fantasie. E ciò che viviamo resta scritto lì, scritto nella memoria, non un annuario non un elenco del telefono, ma un racconto, da leggere e rileggere giocando col tempo e con lo spazio, lungo sentieri imprevedibili..

La memoria è un racconto. Un racconto che non segue un solo filo, ma si può raccontare partendo da qualunque punto e saltando di qua e di là, seguendo collegamenti razionali o emotivi, musicali, evocativi. E ognuno di noi come un linguaggio, un colore personale un suono un’emozione legati ad ogni parola. Ricordi come parole, memoria come un linguaggio. Ma un linguaggio vivo, ricco di relazioni complesse e mutevoli, di colorazioni e vie di fuga inaspettate.

Non il linguaggio dell’enciclopedia, il linguaggio della poesia.

Un linguaggio fatto di significati ma anche di immagini, emozioni, evocazioni, capace di ritmo, musica, danza.

E una memoria che si lascia prendere, come noi, da immagini e emozioni, e fugge e poi ritorna, o si perde in evocazioni sempre più lontane e imprevedibili.

E d’altra parte il pensiero stesso sembra un racconto. Racconto poetico, che segue un filo, ma in ogni momento sa evocare immagini e altri percorsi in cui perdersi.

Aprile è il mese più crudele, genera
lilla da terra morta, confondendo
memoria e desiderio, risvegliando
le radici sopite con la pioggia della primavera
                      [Thomas Stearns Eliot]

Confondere memoria e desiderio... In realtà il difficile è tenerli separati. C’è forse un segnale (quale?) che distingua nel cervello una rappresentazione che

è ricordo da una che vorremmo lo fosse? Se c’è, è segnale incerto e labile, come suggerisce la facilità con cui i nostri ricordi evolvono, si deformano e ci ingannano. Forse è solo una qualificazione che viene loro associata, forse il legame con la parola “vero”, o “reale”. E forse per questo da sempre l’uomo va cercando un dio o un’armonia che gli insegni che cosa è vero e reale. Forse tutta la storia della filosofia altro non è che la ricerca di criteri per non confondere fantasia e realtà, memoria e desiderio.

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